La crescente stratificazione della normativa sulle PMI e la prassi applicativa stanno, di fatto, delineando la nascita di un nuovo tipo societario, le cui regole in materia di finanziamento, a titolo di capitale e di debito, sembrano non tener conto della tradizionale distinzione tra S.r.l. e S.p.a..
Come è noto, il cuore dell’economia italiana è rappresentato dalle PMI.
In base alla definizione fornita dalla Raccomandazione 2003/361/CE, si considerano tali le imprese che, a prescindere dalla forma giuridica adottata, occupino una forza lavoro non eccedente le 250 unità e, cumulativamente, abbiano un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di Euro, ovvero un totale di bilancio non superiore a 43 milioni di Euro.
L’ultimo Report PMI pubblicato da Cerved, evidenzia che, nel corso del 2017, il numero delle PMI italiane ha raggiunto quota 145 mila unità, con una crescita di ricavi (+2,3%), di valore aggiunto (+4,1%) e di MOL (+3,6%), “a cui si associa un miglioramento della redditività netta, tornata sopra i livelli del 2008 e molto vicina ai livelli pre-crisi”.
Tali dati si prestano, a nostro avviso, ad alcuni interessanti spunti di riflessione giuridica.
Come sempre accade, per tentare di comprendere un determinato fenomeno (e, auspicabilmente, cercare di coglierne gli sviluppi futuri), occorre conoscere la natura dei soggetti che lo determinano, nonché il contesto giuridico ed economico da cui provengono.
La categoria delle PMI è costituita da imprese (in maggior parte costituite in forma di S.r.l.), che presentano alcuni tratti caratteristici comuni:
– assetti partecipativi chiusi, spesso familiari, tramandati di generazione in generazione;
– scarsa propensione all’apertura ai mercati di capitale, anche a causa degli elevati costi di transazione e del poco appeal di cui molte PMI godono presso gli investitori;
– grande dinamismo e attenzione alle esigenze del cliente.
La piccola dimensione delle imprese italiane deriva (in parte) certamente da fattori fisiologici, quali la volontà di mantenere eccellenti livelli di qualità e di offrire prodotti e servizi tailor made, evitando un’eccessiva industrializzazione e standardizzazione del prodotto.
La storica difficoltà di crescita è, tuttavia, anche il risultato delle modalità di finanziamento che hanno da sempre contraddistinto le imprese domestiche. Il canale principale (ovvero, quasi esclusivo) di reperimento di risorse finanziarie ha coinciso, di fatto, fino ad oggi, con il canale bancario. Come noto, a seguito della crisi del 2008, le banche hanno, tuttavia, tenuto un approccio conservativo, sempre meno propenso alla condivisione del rischio di impresa e, al contrario, fondato su una sempre più incisiva richiesta di garanzie difficilmente prestabili dalle PMI.
Si è posto, dunque, il problema di ricercare tecniche di finanza alternativa, tradizionalmente proliferate nel sistema di diritto statunitense, e di offrirne una disciplina applicabile all’interno dell’ordinamento italiano.
Ciò doveva necessariamente passare attraverso una radicale riforma dell’istituto della S.r.l., la quale, per sua natura, era delineata dal legislatore del 2003 come una società fondata sull’essenziale rilevanza del rapporto personalistico tra i soci fondatori, sicché, da un lato, le quote di partecipazione non potevano il alcun modo essere rappresentate da azioni e non potevano essere offerte al pubblico come strumenti finanziari[1] (sussistendo, quindi, un divieto di emissione anche di strumenti di debito convertibili) e, dall’altro, era fortemente limitata la possibilità di emettere strumenti finanziari di debito.
Il legislatore ha colto tali criticità e, a partire dal 2012, con l’emanazione della normativa relativa alle start-up innovative[2] (successivamente, in larga parte, estesa a tutte alle PMI[3]) ha introdotto importanti eccezioni alle ordinarie regole societarie, rendendo il regime delle S.r.l. simile a quello delle S.p.a..
Da un punto di vista sistematico, le novità sopra citate hanno creato un’anomalia all’interno del diritto societario italiano, a causa della evidente ibridazione del modello societario S.r.l. che ne è derivata. Si potrebbe, allora, sostenere, che la distinzione più rilevante, all’interno del diritto italiano vivente, si sia spostata dalla contrapposizione S.r.l. – S.p.a., a quella tra i diversi modelli della società chiusa e della società aperta (orientata al mercato del capitale di rischio), sia essa S.p.a. o S.r.l..
Al riguardo, tralasciando tematiche che, seppur estremamente rilevanti, richiederebbero ben più approfondite riflessioni, merita davvero attenzione in fatto che, all’esito delle recenti riforme, tutte le PMI (anche se costituite in forma di S.r.l.) possano ora:
- rendere le quote oggetto di offerta al pubblico, anche mediante campagne di equity crowdfunding;
- emettere strumenti finanziari, quali mini-bonds o convertible bonds;
- emettere strumenti finanziari partecipativi, aventi caratteristiche ibride tra strumenti di debito e strumenti equity;
- quotare gli strumenti finanziari in specifici mercati, gestiti da London Stock Exchange (i.e. Borsa Italiana S.p.a.), quali ExtraMOT PRO.
E, tenendo a mente le caratteristiche e le inclinazioni tradizionali del sistema imprenditoriale italiano, è evidente la portata innovativa di un sistema che contempli la possibilità di attuare le predette tecniche di fundraising in modo tale che, pur aprendo il capitale a soggetti terzi, il controllo della società permanga ai soci fondatori e/o ad altri, specifici, investitori strategici, attraverso la creazione di quote sprovviste del diritto di voto[4] o di diritti particolari attribuibili, in via statutaria, a singoli soci (a titolo esemplificativo, la società potrebbe strutturare una campagna di equity crowdfunding emettendo una categoria di quote “A” – con più alto valore nominale e provviste del diritto di voto – e una categoria di quote “B” – con un più basso valore nominale, appetibili per gli investitori retail e sprovviste dei diritti di voto).
Per quanto riguarda il reperimento di risorse a titolo di debito, la società, a titolo esemplificativo, potrebbe decidere di procedere all’emissione di mini-bonds, i quali, se quotati in specifici sistemi multilaterali di negoziazione (i.e. extraMOT PRO), consentono all’impresa di eccedere le ordinarie soglie massime di indebitamento, previste dalla normativa vigente[5].
Infine, la società potrebbe optare per l’emissione di strumenti convertibili (includendo nel regolamento di emissione specifiche regole relative al procedimento di conversione), i quali potrebbero essere particolarmente utili nei casi in cui i fondatori e i terzi investitori non concordino sulla valutazione c.d. pre-money della società e, di conseguenza, decidano di posticipare tale valutazione allo spirare del c.d. vesting period (ossia, il termine finale entro il quale l’investitore ha l’onere di effettuare la scelta tra il rimborso del capitale e degli interessi accumulati, ovvero la conversione del credito in capitale di rischio).
Alla luce di tutto quanto precede, ci sembra opportuno azzardare qualche, seppur sintetica e approssimativa, conclusione. I dati da cui il nostro ragionamento ha presso le mosse, possono, a nostro avviso, rappresentare il risultato di una riforma la cui portata (forse ancor oggi sottovalutata) ha finalmente posto le PMI nelle condizioni di strutturare una strategia di crescita sostenibile, attraverso l’utilizzo di metodi alternativi di finanziamento, potenzialmente idonei a superare il problema della stretta del credito bancario, che ancora rischia di paralizzare il mercato delle imprese.
Come è ovvio, i problemi non sono risolti e le soluzioni sono ancora da perfezionare e rendere più efficienti nella prassi applicativa. Riteniamo, tuttavia, che la strada da percorrere sia stata tracciata, in modo, peraltro, coincidente ad alcuni modelli esteri che stanno riscuotendo enorme successo[6].
In conclusione, gli imprenditori italiani ed esteri possono, ora, facilitare lo sviluppo delle PMI italiane, mediante un appropriato utilizzo delle nuove tecniche di fundraising, le quali, con l’ausilio di un consulente professionale, possono essere strutturate in base alle concrete esigenze della società, mediante un approccio volto a valorizzare le peculiarità del caso concreto.
[1] Cfr. art. 2468, co. 1, c.c.;
[2] D.L. 179/2012;
[3] Cfr. art. 4, D.L. 3/2015 e art. 57, D.L. 50/2017.
[4] Art. 26, co. 2, D.L. no. 179/2012; art. 2468 c.c..
[5] Ai sensi dell’art. 2412, co. 1 c.c. “La società può emettere azioni al portatore o nominative per somma complessivamente non eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato. I sindaci attestano il rispetto del suddetto limite”. Il successivo comma 5 specifica: “I commi primo e secondo non si applicano alle emissioni di obbligazioni destinate ad essere quotate in mercati regolamentati o in sistemi multilaterali di negoziazione ovvero di obbligazioni che danno il diritto di acquisire ovvero di sottoscrivere azioni”.
[6] La disciplina italiana segue, in larga parte, l’impalcatura delineata in Francia a partire dal 2011. In Francia, tuttavia, la crescita delle Startup è stata, altresì, rafforzata dall’istituzione di un apposito istituto bancario, Bpifrance, avente lo scopo di investire nelle iniziative imprenditoriali ritenute più meritevoli. Per cogliere la virtuosità di tale sistema è sufficiente notare che l’ammontare degli investimenti in startup francesi è passato da 300 milioni di Euro (nel 2011) a 9 miliardi di Euro (nel 2017).