ll trust rappresenta un istituto estremamente flessibile, in grado di essere utilizzato per molteplici scopi, la cui eterogeneità ha, tuttavia, suscitato accesi dibattiti e contrasti giurisprudenziali, di cui si dà atto nella recente sentenza della Cassazione, n. 13626/2018.

L’istituto giuridico del trust, di notoria origine anglosassone, sta, sempre più di frequente, trovando concreta applicazione anche all’interno delle dinamiche socio-economiche italiane.

Come noto, il negozio in esame consiste (tipicamente, salva l’estrema duttilità dell’istituto) nella costituzione di un patrimonio separato dai beni del disponente (c.d. settlor), tramite il trasferimento degli stessi, per atto inter vivos o mortis causa, a favore del trustee (che tuttavia potrebbe essere lo stesso settlor), il quale, a sua volta, si impegna ad amministrarli (sotto la sorveglianza di eventuali protectors) e, alla scadenza pattuita, ad assegnarli al/ai beneficiario/i.

Sotto il profilo civilistico, il principale effetto del trust è, dunque, quello di ottenere una “segregazione patrimoniale in virtù della quale i beni conferiti in trust costituiscono un patrimonio separato rispetto al patrimonio del trustee, con l’effetto che non possono essere escussi dai creditori del trustee, del disponente o del beneficiario”[1].

Quanto precede può valere solamente quale inquadramento estremamente generale della materia, in quanto, come già accennato, il trust si atteggia quale strumento estremamente flessibile alle esigenze che, di volta in volta, sorreggono la volontà del disponente. Tali finalità possono avere a che fare con la gestione di patrimoni familiari, così come con l’esercizio dell’attività di impresa e/o a servizio di operazioni straordinarie o di reconstructing. In estrema sintesi, possono distinguersi le seguenti categorie di trust:

· trust c.d. di garanzia, volto a ottenere la separazione patrimoniale e la segregazione di somme o beni, vincolati all’eventuale soddisfacimento di debiti futuri e/o condizionati del disponente;

· trust c.d. di salvataggio, utilizzabile a servizio di piani concordatari o, più in generale, al fine di scongiurare la proposizione di istanze di fallimento, in caso di crisi reversibile;

· trust c.d. liquidatorio, volto a strutturare l’attività di liquidazione dell’impresa, con modalità differenti rispetto a quelle ordinariamente previste dal codice civile;

· trust c.d. commerciale, spesso utilizzato per segregare un ramo d’azienda, ad esempio allo scopo di vincolare l’impiego di somme al finanziamento di progetti specifici (recentemente utilizzato dalle SPAC – Special Purpose Acquisition Companies – per custodire e/o temporaneamente investire la provvista a servizio della c.d. business combination);

· trust c.d. familiare, volto a gestire, con le più svariate modalità, il patrimonio di famiglia, in favore degli eredi e/o di terzi beneficiari.

Pur in assenza di una regolamentazione organica dell’istituto sotto il profilo civilistico, il legislatore ha provveduto, con la L. n. 296/2006, a regolarne le principali problematiche di natura fiscale.

a) Sotto il profilo delle imposte dirette, limitandoci, in questo articolo, ai trust italiani[2], occorre distinguere tra:

· trust con beneficiari, diretti, individuati (c.d. trasparenti): in tal caso, i redditi prodotti dal trust (es. proventi derivanti dallo sfruttamento economico di un immobile) sono imputati per trasparenza in capo ai beneficiari, che risultino, senza potere discrezionale del trustee, titolari del diritto alla percezione dei redditi prodotti dalla gestione trust, anche prima dell’assegnazione del patrimonio dello stesso[3];

· trust senza beneficiari, diretti, individuati (c.d. opachi): in tal caso, i redditi prodotti accrescono il patrimonio del trust e vengono assoggettati ad IRES[4];

· trust c.d. misti, i cui redditi sono, in parte, accantonati fino alla definitiva assegnazione dei beni ai beneficiari e, in parte, assegnati e/o spettanti immediatamente a questi ultimi: in tal caso, la parte di reddito accantonata a patrimonio del trust è assoggettata ad IRES, mentre la restante parte viene tassata per trasparenza in capo ai beneficiari[5].

Pare opportuno, inoltre, sottolineare che, al fine della determinazione del reddito assoggettabile ad IRES, i trust esercenti attività commerciale sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili, ai sensi dell’art. 13, d.P.R. n. 600/1973.

b) Sotto il profilo delle imposte indirette, il trust è soggetto all’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al D.lgs. n. 346/1990, con applicazione delle aliquote di cui all’art. 2, commi 48 e 49 del D.L. n. 262/2006 (comprese tra il 4% e l’8%).

Il regime di imposizione indiretta del trust rappresenta, tuttavia, il tema di maggiore dibattito dal punto di vista fiscale. Ciò, principalmente, a causa della già citata polifunzionalità dell’istituto, in virtù della quale è frequente, nella prassi, l’istituzione di trust inter vivos carenti del requisito della gratuità, e, talvolta, addirittura di un effettivo trasferimento di ricchezza tra soggetti diversi (come avviene nel trust c.d. autodichiarato, in cui settlor e trustee coincidono nella stessa persona).

A più riprese, i contribuenti hanno, perciò, sostenuto l’applicabilità, in luogo dell’imposta sulle donazioni, dell’imposta di registro in misura fissa, facendo leva sulla mancanza dell’elemento della gratuità (es. in caso di trust liquidatorio), ovvero sulla carenza dell’effettivo trasferimento di ricchezza (es. trust autodichiarato).

Si sono, quindi, succedute contrastanti pronunce di legittimità, le quali, in passato, hanno affermato che l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni al trust, in quanto atto costitutivo di vincoli, costituirebbe una fattispecie speciale, di per sé idonea ad integrare il presupposto impositivo, a prescindere dall’effettivo trasferimento di ricchezza discendente dal conferimento dei beni al trustee, ed indipendentemente dall’esistenza di un animus donandi[6].

All’opposto, altra giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che il presupposto impositivo possa essere ravvisato solo nell’atto di trasferimento del patrimonio a favore del beneficiario, poiché, solo in tale momento, si realizza quell’effettivo trasferimento di ricchezza, con impoverimento del disponente, rilevante ai fini impositivi, conformemente al dettato costituzionale, con la conseguente irrilevanza del vincolo a favore del trusteee, a fortiori in caso di trust autodichiarati[7].

Con la recente sentenza n. 13626/2018, la Suprema Corte pare essere tornata (parzialmente) sui propri passi, riaffermando che la rilevanza della creazione del vincolo di indisponibilità è, di per sé, idonea ad integrare il presupposto del trasferimento di ricchezza, se ed in quanto sia determinato un depauperamento del settlor, con la conseguente applicazione dell’imposta fin dal momento del conferimento dei beni al trustee, ove si realizzi tale effetto di impoverimento del settlor.

Resta, tuttavia, ancora aperto il dibattito, non solo riguardo i trust c.d. autodichiarati, che non realizzando alcun vincolo a favore di soggetti diversi dal settlor non paiono integrare alcun immediato impoverimento di quest’ultimo, ma anche in relazione ad altre tipologie di trust, per le quali il contenuto dell’atto costitutivo del trust e le sue regole di funzionamento potrebbero risultare determinanti per la soluzione del problema.

[1] Cfr. Agenzia delle Entrate, Circolare n. 48/E del 2007.

[2] Ai fini dell’individuazione della residenza fiscale del trust, valgono i princìpi generali di cui all’art. 73, co. 3, TUIR, in base al quale si considerano residenti in Italia i trust che alternativamente (i) abbiano in Italia la loro sede legale; (ii) abbiano in Italia la sede dell’amministrazione; (iii) svolgano la propria attività principale sul territorio italiano.

[3] Cfr. Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 81/E del 2008.

[4] Cfr. art. 73, d.P.R. n. 917/1986.

[5] Cfr. Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 81/E del 2008 cit..

[6] Cfr., tra le altre, Cass. n. 4482/2016.

[7] Cfr. Cass. n. 21614/2016.