Analisi del regime fiscale applicabile al fenomeno delle valute virtuali alla luce del nuovo chiarimento fornito dall’Agenzia delle Entrate.

La maggiore diffusione della tecnologia BitCoin registrata negli ultimi tempi, e la crescente domanda per tali c.d. token virtuali da parte di singoli utilizzatori, suggerisce di (pre)occuparsi del trattamento fiscale applicabile in questa materia, al fine di prevenire, per quanto possibile, eventuali contestazioni da parte dell’Amministrazione Finanziaria, e sollecitando, al contempo, un più attento esame riguardo la qualificazione normativa del fenomeno criptovalutario[1].

Ancora molti, infatti, sono gli aspetti che restano da chiarire, nell’inquadramento giuridico degli elementi in fatto che caratterizzano il funzionamento di tale fenomeno, dal c.d. mining (ossia dalla coniatura) dei BitCoin, alla loro usuale gestione mediante portafogli digitali (c.d. “wallet”) di impossibile localizzazione geografica, alla determinazione del loro controvalore sulla base di quotazioni pubblicate da operatori non istituzionali. Elementi che le nostre leggi tributarie non sono ancora pronte a disciplinare, costringendo gli operatori (con in testa la stessa Amministrazione finanziaria) a cercarvi improbabili analogie con i presupposti di rilevanza fiscale delle operazioni su valute estere “reali”. Con conclusioni non sempre convincenti, se solo si considera come, nella pratica, si riscontri la negoziazione di token coniati per finalità non già di pagamento (come, invece, può dirsi, almeno in linea di principio, per BitCoin o criptovalute in senso stretto), bensì di investimento e partecipazione ad iniziative economiche (alla stregua di azioni o obbligazioni), ovvero di mero utilizzo (quale passe-partout d’accesso a servizi disponibili presso specifiche infrastrutture digitali).

Eppure, mentre talune giurisdizioni hanno cominciato a prendere coscienza della complessità di un fenomeno che non può essere disciplinato senza essere prima inteso nelle sue manifestazioni pratiche (vedasi, ad esempio, la Svizzera, la cui autorità di vigilanza sui mercati finanziari ha già diramato classificazioni schematiche dei vari token in circolazione), allo stato della nostra attuale normativa, è sulla scorta di questa, per molti versi impropria, equiparazione bitcoin/valuta reale, che anche la Amministrazione italiana individua il regime fiscale applicabile alle criptovalute, per la cui illustrazione, occorre innanzitutto distinguere le operazioni compiute da operatori specializzati nell’esercizio della propria attività commerciale[2], dalle operazioni compiute dai privati.

Con riguardo al primo caso, già la Corte di Giustizia europea del 22 ottobre 2015, causa C-264/2014, aveva sostenuto, ai fini del trattamento Iva, che le operazioni di cambio valuta tradizionale contro valuta virtuale, effettuate da un soggetto professionale, rientrano tra le prestazioni di servizi relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio, esenti dall’assolvimento dell’obbligo Iva, ai sensi di quanto disposto dall’art. 135, par. 1, lett. e), della Direttiva 2006/112/CE.

Alla medesima conclusione è giunta l’Agenzia delle Entrate nella Risoluzione del 2 settembre 2016, n. 72/E, sostenendo, in un caso che riguardava una società che operava nell’acquisto e vendita di BitCoin, per conto della propria clientela, che l’attività della società istante rientrasse tra quelle esenti ex art. 10, co. 1, n. 3), del d.P.R. n. 633/1972.

Per quanto concerne il trattamento fiscale delle criptovalute negoziate da operatori specializzati, ai fini delle imposte dirette, la citata Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate ha considerato il reddito derivante dalla differenza (positiva o negativa) tra il prezzo al quale l’operatore ha acquistato le valute e il prezzo di vendita ai suoi clienti, quale ricavo (o costo) caratteristico dell’attività d’intermediazione, destinato a concorrere alla determinazione del risultato d’esercizio civilistico e della base imponibile ai fini IRES e IRAP. Inoltre i BitCoin che rimangono nella disponibilità della società al termine del periodo d’imposta devono essere valutati in base al loro valore normale, ai sensi dell’art. 9 del d.P.R. n. 917 del 1986, facendo riferimento al valore corrispondente alla quotazione degli stessi BitCoin al termine dell’esercizio, in considerazione della media delle quotazioni rinvenibili sulle piattaforme on line in cui essi sono negoziati.

Pare opportuno, inoltre, segnalare, che le società che svolgono attività di negoziazione di BitCoin, nell’ambito di un’attività d’impresa, sono assimilabili ai soggetti di cui all’art. 3, co. 2, lett. c), del decreto legislativo n. 231/2007 e, conseguentemente, sono tenute agli obblighi di adeguata verifica della clientela, di registrazione di dati nonché di segnalazione di operazioni sospette, onde neutralizzare rischi connessi all’utilizzo di BitCoin per fini di riciclaggio di denaro e finanziamento al terrorismo.

Per quanto concerne, invece, il trattamento fiscale applicabile a soggetti privati, che detengono BitCoin al di fuori dell’attività d’impresa, nella risposta all’interpello n. 956-39 del 2018, l’Agenzia delle Entrate ha recentemente affermato che le persone fisiche che effettuano operazioni di conversione di valuta virtuale sono assoggettate alle regole generali dettate per operazioni in valute tradizionali, previste dagli artt. 67, co. 1, lett. c-ter e co. 1-ter[3] del TUIR, in materia di redditi diversi, di natura finanziaria, precisando, a tal proposito, che, al superamento di una prestabilita soglia di giacenza[4] del valore dei BitCoin, detenuti sul wallet da cui venga prelevata la criptovaluta oggetto di cessione, anche le plusvalenze derivanti da operazioni “a pronti” rappresentano redditi diversi, assimilati ai redditi conseguiti in relazione ad operazioni su valute estere, e come tali, assoggettati a tassazione.

La suddetta risposta all’interpello n. 956-39/2018[5] ha del tutto superato la precedente Risoluzione n. 72/E del 2016, la quale qualificava l’acquisto di BitCoin a “pronti” come esente da tassazione, ritenendo fiscalmente rilevanti soltanto le cessioni a termine[6] o il prelievo da conti correnti o depositi, solo in tale ipotesi ravvisando la finalità speculativa[7].

Il fenomeno criptovalutario, tuttavia, in attesa di un compiuto inquadramento giuridico del particolare bene – BitCoin, magari nell’ambito di un’auspicabile disciplina armonizzata di livello comunitario, continua a presentare ampie zone d’ombra ed incertezze sulla corretta qualificazione normativa delle particolarità che lo caratterizzano.

Ha davvero senso, ad esempio, equiparare i BitCoin, che per lo più vengono compravenduti per finalità speculative (e che talvolta, come sopra accennato, sono privi di qualunque potere d’acquisto), alle valute reali che tutti conosciamo? Ha senso equipararli alle valute estere, come se il mondo del digitale, nel quale vengono creati, fosse un’immaginaria terra straniera? E perché mai tale, forzata, assimilazione dovrebbe condurre (come affermato dall’Agenzia nella risposta al più volte citato interpello n. 956-39 del 2018) all’obbligo di segnalarne la detenzione nel quadro RW della dichiarazione, tipicamente riservato non già a tutti i depositi di valuta estera del dichiarante, ma solo ai depositi (di qualsivoglia valuta, sia essa estera o meno) che siano detenuti all’estero? Forse perché anche il wallet, ossia il portafoglio digitale in cui trovano allocazione i BitCoin, dovremmo immaginarcelo come ubicato in quell’immaginaria terra straniera dove le criptovalute vengono create? Oppure dovremmo attribuire rilevanza al luogo in cui risiede il “miner” o il gestore del mercato di negoziazione delle criptovalute? E siamo sicuri che tali luoghi siano individuabili utilizzando gli ordinari criteri?

Tutte domande a cui siamo certi che il singolo commentatore sia in grado di dare risposta, senza l’assistenza di un professionista?

[1] A testimoniare la crescente attenzione verso questo fenomeno possono richiamarsi recenti interventi di prassi e giurisprudenza comunitaria: Corte di Giustizia, sentenza 22 ottobre 2015, causa C-264/14; Risoluzione n. 72/E/2016; Interpello n.956-39 del 2018.

[2] Vale a dire i soggetti che svolgono attività di intermediazione nell’acquisto o vendita di criptovalute (c.d. exchange).

[3] Art. 67, co. 1, lett. c-ter “le plusvalenze, diverse da quelle di cui alle lettere c) e c-bis), realizzate mediante cessione a titolo oneroso ovvero rimborso di titoli non rappresentativi di merci, di certificati di massa, di valute estere, oggetto di cessione a termine o rinvenienti da depositi o conti correnti, di metalli preziosi, sempreché siano allo stato grezzo o monetato, e di quote di partecipazione ad organismi d’investimento collettivo. Agli effetti dell’applicazione della presente lettera si considera cessione a titolo oneroso anche il prelievo delle valute estere dal deposito o conto corrente”.

Art. 67, co. I-ter. “Le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute estere rivenienti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che nel periodo d’imposta la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento sia superiore a cento milioni di lire per almeno sette giorni lavorativi continui”.

[4] Soglia di giacenza pari ad euro 51.645,69, da calcolarsi avendo riguardo al valore di cambio vigente all’inizio del periodo d’imposta, come desumibile dalle piattaforme ufficiali (ammesso che ve ne siano…) sulle quali i bitcoin vengono negoziati.

[5] Per comprendere la portata innovativa del nuovo orientamento dell’Agenzia, si veda quanto affermato dalla menzionata sentenza della Corte di Giustizia europea C-264/14 del 2015, richiamata dal più recente provvedimento del Fisco, ove si stabilisce un’assimilazione sostanziale tra le monete virtuali e le monete tradizionali, ritendendo, conformemente a tale interpretazione, le plusvalenze derivanti dalla cessione di criptovalute, riconducibili nell’ambito di applicazione disciplinato dall’art. 67 del TUIR.

[6] L’operazione a termine si verifica quando la consegna e la vendita di valuta vengono perfezionate soltanto ad una data di valuta futura, mentre gli importi vengono definiti sulla base di un cambio fissato alla data dell’accordo. L’operazione a pronti si verifica quando lo scambio tra due valute si perfeziona contestualmente all’accordo, al tasso di cambio attuale.

[7] La ratio della interpretazione fornita dalla Risoluzione 72/E del 2016 si evince da quanto si legge nella relazione illustrativa al d.lgs n. 461/1997, che ha introdotto l’art. 67 nel Tuir, stabilendo che “Per le valute estere il criterio che si è prescelto è quello di assoggettare ad imposizione soltanto le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso delle valute di cui si sia acquisita ovvero mantenuta la disponibilità per finalità d’investimento. Dato che peraltro sarebbe risultato assai problematico accertare, volta per volta, quando la disponibilità di una determinata valuta sia stata acquisita o mantenuta per la predetta finalità, si è ritenuto preferibile introdurre una presunzione assoluta. In particolare, sulla base di tale presunzione la finalità d’investimento è ritenuta sussistente, ogniqualvolta le valute sono depositate su depositi o conti correnti ovvero hanno costituito oggetto di cessione a termine. Alla cessione a titolo oneroso della valuta è stato equiparato anche il prelievo dal conto corrente ovvero dal deposito. L’introduzione di tale equiparazione si è resa necessaria in quanto una volta che la valuta sia uscita dal conto corrente o dal deposito, non è più possibile stabilire se e quando essa è stata successivamente ceduta. Al fine comunque di evitare di attrarre a tassazione fattispecie non significative, con la disposizione aggiunta al comma 3 dell’art. 81, in attuazione della norma di delega che consente l’introduzione di franchigia, si è disposto che la tassazione delle cessioni di valute rivenienti da depositi o conti correnti si ha solo nel caso in cui la giacenza massima dei depositi intrattenuti dai contribuenti superi i 100 milioni per almeno sette giorni lavorativi continui”.