Gli strumenti finanziari partecipativi come ottima soluzione per la predisposizione di piani di incentivazione del management, anche alla luce dell’intervento normativo di cui all’art. 60 del D.L. 50/2017, recante importanti novità di natura fiscale in materia di carried interest

L’art. 60 del D.L. 50/2017 convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 giugno 2017, n. 96 è intervenuto su un’area potenzialmente di grande interesse per il settore del private equity e venture capital, prevedendo interessanti modifiche nella qualificazione fiscale dei carried interest, intesi quali benefit riservati ai manager. Tale intervento, peraltro, si collega ad altre novelle legislative che oggi permettono alle società di emettere strumenti finanziari partecipativi (di seguito, “SFP”)[1], ossia strumenti estremamente duttili, che si prestano alle più variegate esigenze.

L’interdipendenza tra le due fattispecie normative sopra accennate è molto rilevante, posto che i benefici fiscali previsti a favore dei carried interest non esistono in assenza di idonei SFP.

Infatti, gli SFP sono strumenti a forma libera, in relazione ai quali la società emittente indica i diritti connessi alla loro titolarità; essi sono privi di una causa tipica, la cui individuazione è rimessa all’autonomia privata e, nello specifico, alle norme statutarie. La loro previsione normativa ha permesso di superare la precedente rigidità di funzionamento delle società, essendo essi strumenti ibridi, capaci di agevolare il perseguimento di specifici obiettivi. Si tratta di strumenti particolarmente utili, anche in connessione ai carried interest, i quali, come è noto, consistono nell’attribuzione ai manager (amministratori o dipendenti) di una quota aggiuntiva di partecipazione all’utile dell’impresa, diretta ad incentivare le performance della società, facendo concorrere il management al rischio di impresa.

Tornando alla novità in commento, essa ha avuto il pregio di fare chiarezza su un’annosa questione interpretativa derivante dall’incerta qualificazione del flusso reddituale generato dai carried interest, specificando che essi, al ricorrere di specifiche condizioni, sono qualificati per legge (presunzione legale) come redditi di capitale o diversi di natura finanziaria, rappresentando essi una vera e propria forma di remunerazione della partecipazione al capitale di rischio e non, invece, di corrispettivo per l’attività lavorativa svolta.

Prima dell’intervento legislativo, secondo alcuni, il provento derivante da un diritto patrimoniale rafforzato rientrava tra i redditi da lavoro del manager (amministratore o dipendente); altri, invece, dando rilievo al fatto che i titolari di carried interest fossero assoggettati al rischio di perdita del capitale investito, al pari degli altri investitori, classificavano il provento derivante da carried interest quale reddito di capitale, valorizzando l’aspetto della remunerazione dell’investimento effettuato dai manager, piuttosto che l’opera da questi ultimi svolta.

Alla luce di ciò, non può negarsi che il chiarimento offerto dalla nuova norma ha avuto un forte impatto sul carico fiscale del percettore di tali tipi di remunerazione: infatti, mentre, la tassazione dei redditi di lavoro dipendente (o a essi assimilati) avviene secondo le regole ordinarie di determinazione del reddito imponibile ai fini IRPEF, con conseguente, possibile, applicazione dell’aliquota marginale (fino al 43%), i proventi di natura finanziaria, invece, sono assoggettati ad imposta sostitutiva o ritenuta, con applicazione di un’imposta proporzionale in misura pari al 26%.

Passando all’analisi della norma in commento, dal punto di vista soggettivo, essa trova applicazione nei confronti di chi intrattenga rapporti di lavoro dipendente o assimilato con società, enti o società di gestione dei fondi. Sono, invece, esclusi i professionisti, quali avvocati, commercialisti e revisori legali, coinvolti in qualità di consulenti.

Dal punto di vista datoriale, la norma si applica ai manager delle (i) società di gestione degli investimenti (SGR e Advisory Company), (ii) società che effettuano le operazioni di investimento, (iii) società target (oggetto delle operazioni di investimento).

Le partecipazioni che possono attribuire il carried interest non sono solo quelle acquistate nell’ambito dei fondi e delle società d’investimento, ma anche quelle effettuate in ambiti diversi da quello finanziario, come quello industriale, seppur con gli opportuni adattamenti.

Sotto il profilo oggettivo, poi, la norma disciplina “i proventi derivanti dalla partecipazione, diretta o indiretta, a società, enti o organismi di investimento collettivo del risparmio […] se relativi ad azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati”, la cui nozione di carried interest si ricava dalle precisazioni contenute nella Relazione Illustrativa all’art. 60 del D.L. 50/2017, secondo cui  “gli strumenti finanziari di partecipazione al capitale dei fondi di investimento da parte di gestori e dipendenti, denominati carried interest, si associano ad una partecipazione agli utili proporzionalmente maggiore rispetto a quelli degli altri investitori, a ragione dell’assenza di diritti amministrativi, all’esistenza di temporanei vincoli alla trasferibilità, ovvero alla postergazione nella distribuzione degli utili, in quanto è normalmente stabilito che essi potranno assumere rilevanza concreta solo se gli investimenti daranno luogo a risultati economici al di sopra di determinate soglie”.

La presunzione legale, per cui i carried interest sono considerati redditi di capitale o redditi diversi di natura finanziaria, come già anticipato, opera al verificarsi di talune condizioni.

Innanzitutto l’investimento complessivo di tutti i manager titolari di carried interest deve comportare un esborso effettivo maggiore o uguale all’1%: (i) dell’investimento complessivo effettuato dal fondo, nel caso di organismi di investimento collettivo del risparmio[2]; (ii) del patrimonio netto della società, nel caso di società o enti[3].

Peraltro, ai fini della determinazione dell’esborso effettivo, rileva anche l’ammontare assoggettato a tassazione come reddito in natura di lavoro dipendente o assimilato o di lavoro autonomo derivante dalla attribuzione o sottoscrizione di azioni, quote o strumenti finanziari (requisito dell’investimento minimo).

Ulteriore requisito, introdotto al fine di tutelare gli altri investitori, è costituito dal fatto che la maturazione dei proventi derivanti carried interest avvenga (i“dopo che tutti i soci o partecipanti all’organismo di investimento collettivo del risparmio abbiano percepito un ammontare pari al capitale investito e pari ad un rendimento minimo previsto nello statuto o nel regolamento”, o (ii) “nel caso di cambio di controllo, alla condizione che gli altri soci o partecipanti dell’investimento abbiano realizzato con la cessione un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito e al rendimento minimo. (requisito del differimento nella distribuzione dell’utile).

Inoltre, la Circolare 25/E del 16.10.2017 (di seguito, la Circolare) ha specificato che il requisito del differimento dell’utile opera limitatamente all’extra-rendimento (derivante dal diritto patrimoniale rafforzato) e non al rendimento ordinario che è riconosciuto a tutti gli investitori, compresi i manager/investitori.

E’, altresì, richiesto il c.d. holding period, ossia un periodo minimo, maggiore o uguale a 5 anni, di detenzione degli strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati. Tale requisito è previsto al fine di garantire l’allineamento di interessi tra i manager e gli altri investitori per un periodo di tempo significativo (requisito del periodo minimo di detenzione dell’investimento).

Infine, la Circolare si è espressamente soffermata sulla qualificazione e determinazione reddituale del carried interest anche in assenza dei requisiti sopra indicati. L’Agenzia delle Entrate ha affermato che l’assenza di uno o più requisiti non comporta, in automatico, la riqualificazione del provento come reddito di lavoro o assimilato. L’Ufficio ha adottato un approccio case by case per la corretta qualificazione del provento, fornendo, a titolo esemplificativo, alcuni parametri per valutare l’idoneità del provento a rappresentare una vera e propria forma di remunerazione della partecipazione al capitale di rischio anziché di corrispettivo per l’attività lavorativa svolta.

In conclusione, nonostante i primi chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate, permangono profili di incertezza e criticità che potrebbero scoraggiare gli operatori economici a utilizzare questi strumenti. Rilevano, in particolare, i dubbi riguardanti il valore del patrimonio netto, che, come detto, rappresenta il parametro di commisurazione dell’investimento minimo richiesto ai manager e che, essendo soggetto a variazione, espone questi ultimi ad una costante attività di verifica, per adeguare i propri investimenti, senza alterare la percentuale di investimento minimo dell’1%.

Un elemento di criticità, a parere di chi scrive, deriva dalla disparità di trattamento cui viene sottoposto il provento derivante da carried interest, spettante al manager, in caso di cessione di partecipazione che non integri una fattispecie di change of control, ma che abbia, comunque, garantito agli altri soci (o agli altri investitori), un prezzo di vendita pari almeno al capitale investito (o al rendimento minimo).

In questo caso, infatti, il reddito percepito dal manager, non rientrando nella disciplina in commento (art. 60 co. 1, lett. b) D.L. 50/2017) non viene qualificato come reddito di natura finanziaria.

Sulla base degli interrogativi sopra indicati si ritiene opportuno, in assenza di ulteriori interventi chiarificatori da parte dell’Agenzia delle Entrate, che il soggetto interessato si rivolga preventivamente all’amministrazione finanziaria, con una specifica istanza di interpello, al fine di ricevere un parere sulla sussistenza in concreto dei requisiti necessari per l’applicabilità dell’istituto in esame.

[1] La riforma organica del diritto delle società del 2003 aveva introdotto la figura degli strumenti finanziari partecipativi limitatamente alle S.p.A. (art. 2346, comma 6, c.c.), tuttavia l’art. 4, comma 9, D.L. 5/2013 ha consentito anche alle PMI innovative costituite in forma di S.r.l. la possibilità di emettere tali strumenti.

[2] L’operatività della norma con rifermento ai fondi richiede una preliminare descrizione di questi ultimi al fine di stabilire il momento di individuazione della percentuale dell’investimento minimo richiesto dalla legge. A tal proposito si segnala che il funzionamento dei fondi si distingue in due fasi:

Alla luce del predetto funzionamento, il requisito dell’impegno minimo di investimento deve sussistere nella fase di commitment.

[3] In caso di società, invece, il requisito dell’investimento minimo dell’1% va commisurato al patrimonio netto, da quantificare a valori correnti e determinabili in base a perizia di stima