Recentemente, in uno dei tanti convegni proposti sul tema del D.Lgs. 14/2019, denominato “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, sono stato colpito da alcuni dati relativi all’economia italiana, che mi hanno indotto a riflettere su alcuni aspetti, a mio avviso, meritevoli di essere messi a fattor comune.

Innanzitutto, l’economia italiana è tutt’oggi caratterizzata dall’essere popolata, per il 95%, da imprese, definibili come PMI, ma per lo più microimprese, di stampo familiare e/o artigianale, con meno di 10 addetti.

Si tratta di imprese che, anche nei periodi di maggior crisi, hanno denotato un’eccezionale resilienza ed una capacità di adattamento davvero lodevoli, restando in vita e consentendo di restare in vita anche alle imprese al vertice della filiera, che da esse si approvvigionano, ottenendo prodotti di qualità, caratterizzanti il “made in Italy”, con elasticità nelle funzioni produttive (forse) senza pari all’estero.

Queste PMI, che costituiscono la struttura portante dell’economia italiana si approvvigionano pressoché esclusivamente, per i propri fabbisogni finanziari, presso il sistema bancario, presentando per lo più, una struttura patrimoniale estremamente limitata, con esigui capitali propri, insufficienti a coprire, in particolare, i costi della digitalizzazione delle attività di impresa, peraltro indispensabile per lo sviluppo delle attività produttive, per lo più coincidenti con la propria stessa attività di impresa.

Le banche italiane, d’altro canto, sono afflitte, percentualmente in modo più pesante rispetto a quelle degli altri stati europei, dal problema degli NPL (Non Performing Loan) ed incombe ormai il tema dell’applicazione delle regole sui crediti UTC (Unlikely to pay), che, se applicate nella loro, rigida, versione attuale, metterebbero in grande difficoltà o a serio rischio (per non dire altro) il rapporto tra le suddette PMI e le rispettive banche di riferimento, non più in grado di tollerare sconfinamenti e ritardi, ahimé all’ordine del giorno.

Per contro, e cambiando prospettiva, il D.Lgs. 14/2019 è intervenuto, con norme già in vigore, sui necessari assetti organizzativi dell’impresa (art. 375), stabilendo che l’imprenditore ha il dovere di istituire un assetto organizzativo “adeguato”, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa e della perdita di continuità aziendale, dovendosi attivare “senza indugio”, per l’adozione delle misure occorrenti, altresì chiarendo che la gestione dell’impresa, da intendersi riferita essenzialmente alle scelte organizzative di cui sopra, spetta, nelle società, “esclusivamente” agli amministratori (art. 377), su cui gravano le conseguenti responsabilità (art. 378), eventualmente in concorso con l’organo di controllo (sindaci e/o revisori), il quale (per le società tenute a dotarsi di tali organi, ex art. 379) ha l’obbligo di verificare che l’assetto organizzativo, l’equilibrio finanziario ed economico e il prevedibile andamento della gestione siano “costantemente” valutati dagli amministratori, segnalando “immediatamente” a questi ultimi l’esistenza di indizi di crisi (art. 14).

Viene così prefigurata l’esigenza di un sistema di gestione integrato, con la fattiva, attenta e costante collaborazione tra organi di gestione e di controllo, la cui adeguatezza, declinata in termini di funzioni (cioè persone), procedure e strumenti, pur potendo essere valutata alla luce della discrezionalità, che connota le attività di impresa, è prevedibile possa creare problemi al tessuto imprenditoriale, costituito dalle PMI e microimprese, impreparato a questo salto culturale.

Sia per le tematiche di natura finanziaria (per le quali si renderà sempre più pressante l’esigenza di reperire forme di finanziamento alternative, rispetto a quelle tradizionali, bancarie), sia per quelle organizzative, a me pare che si renderà necessaria una condivisione del rischio imprenditoriale a livello di “filiera”. La committente ultima che si avvale cioè di una molteplicità di fornitori e subfornitori, gradatamente sempre più piccoli, per dimensione, e destrutturati, non potrà fare a meno, per tutelare il proprio stesso business, di interessarsi della crescita culturale dei propri fornitori e/o subfornitori, per la predisposizione di adeguati assetti organizzativi ed, in qualche modo, assistendoli anche nelle scelte finanziarie da operare per far fronte ai fabbisogni in termini di investimenti e capacità produttive, sulla base di business plan e budget condivisi.

Il contratto di rete (di cui al D.Lgs. 5/2009, conv. in L33/2009, e successive integrazioni e modificazioni), debitamente declinato con clausole che, pur non creando il rischio di inquinamento delle, distinte, autonomie patrimoniali delle varie imprese coinvolte, ciononostante possano essere valorizzate nel rapporto con i terzi (ad esempio le banche) potrebbe essere, già ora, valido strumento di ausilio ed intervento, per la regolamentazione di tali rapporti di filiera, indipendentemente dalle ulteriori misure che, magari, utilmente il nostro Governo, consapevole della situazione italiana, potrebbe adottare.