Gli straordinari eventi che coinvolgono attualmente le nostre vite ne modificheranno espressioni ed equilibri ed il processo di profondo cambiamento, già in atto, determinerà, inevitabilmente, l’emersione di nuovi conflitti che, con ogni probabilità e in gran parte, evolveranno in controversie giuridiche la cui risoluzione richiederà all’avvocato di mettere in campo ulteriori competenze di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate”, come già, in tempi non sospetti, si era avveduta la Corte di Cassazione nella nota sentenza n. 8473/2019. La padronanza di tali ulteriori competenze professionali consentirà, infatti, all’avvocato di fornire un’assistenza qualificata nell’ambito di procedure di risoluzione delle controversie, alternative a quelle giudiziarie (come, la mediazione e la negoziazione assistita) che, proprio in ragione delle loro peculiari metodologie e finalità ispiratrici, potranno meglio interpretare e, quindi, maggiormente contribuire a risolvere le controversie giuridiche in cui quei conflitti evolveranno. Ma vediamo meglio in dettaglio, partendo innanzitutto da un’analisi degli accadimenti in atto e delle loro implicazioni sulle relazioni interpersonali, che si avvantaggia anche degli esiti di un annoso percorso, personale e professionale, volto proprio ad acquisire, con costante determinazione e convinzione, quelle specifiche competenze relazionali così determinanti per il migliore svolgimento delle attività di mediazione e negoziazione ed al fine di stare al passo con la “progressiva emersione di una figura professionale nuova” di cuila stessa Suprema Corte ha avuto chiara percezione. Iniziamo, dunque. La vita di tutti noi ha subito un cambiamento repentino e non prevedibile, almeno in queste proporzioni, fino a poche settimane fa. Gli abituali comportamenti individuali e le consolidate modalità di interazione sociale sono stati modificati, ad ogni livello (famigliare, commerciale, professionale etc..), da una serie di iniziative governative sempre più stringenti, adottate con l’intento di arginare il contagio (e, quindi, di evitare il collasso del SSN) e, al contempo, di sostenere l’economia del Paese ed assicurarne i servizi essenziali. Tutto questo ha mostrato, con spiazzante evidenza, la stretta interconnessione tra gli individui (e tra i diversi ambiti in cui essi operano) e, ancor più, il fatto che non può esserci benessere individuale senza benessere collettivo e che, quindi, ognuno di noi può vivere in salute, in sicurezza e in libertà, solo se tutti gli altri lo sono. Da qui la rinnovata consapevolezza della necessità di condividere principi e regole certe che individuino, a quel fine, diritti e doveri reciproci, ai quali dare attuazione mediante comportamenti non solo “astrattamente” conformi al dettato normativo, ma tali da concretizzare, nella vita di ogni individuo, la ratio e la finalità ultima che ognuno di quei principi e regole mirano a realizzare (per fare un esempio di attualità, pensiamo a chi, uscendo ogni giorno – o più volte al giorno – per andare al supermarket o per fare attività fisica all’aperto, si sia sì conformato alle regole al tempo in vigore, ma ne abbia forse – in alcuni casi – trascurato la finalità, ossia quella di salvaguardare la salute pubblica evitando le occasioni di contatto non strettamente essenziali alla propria sopravvivenza). Ciò detto, non va trascurato un ulteriore dato. L’adozione di regole che comprimono la libertà, seppure giustificate (e, per ciò stesso, accettabili, almeno a livello intellettivo) da improcrastinabili esigenze di tutela della salute (quale bisogno fondamentale e presupposto della libertà stessa), non può che scontrarsi con l’atavica resistenza al cambiamento (soprattutto se percepito come “perdita”), ossia con la tendenza a conservare lo status quo che circoscrive e sostanzia la nostra confort zone, all’interno della quale l’esercizio delle libertà individuali si avvantaggia dell’affidamento a regole, abitudini e schemi comportamentali noti (perché facenti parte del bagaglio esperienziale, anche collettivo, formatosi in situazioni passate di “normalità”), consentendo così di fare previsioni, più o meno attendibili, circa le conseguenze delle proprie e altrui azioni, e, quindi, di fronteggiare anche situazioni problematiche con ragionevole fiducia negli sviluppi preventivati. Tale condizione, aggiunta alla repentina presa di coscienza della fragilità ed impermanenza delle nostre, apparentemente, solide realtà, così come dell’inadeguatezza dei nostri sistemi di protezione (personali e nazionali ed, in primis, quelli sanitari), oltre che la quotidiana immersione nell’incessante flusso informativo che ci inonda di notizie drammatiche e di commenti di varia provenienza e fondatezza, non possono che ingenerare disorientamento e paura e, soprattutto, minare l’elemento fondante di ogni sana e proficua relazione umana, la fiducia in sé stessi e negli altri.Il dizionario Treccani definisce il termine fiducia[dal lat. fiducia, der. di fidĕre «fidare, confidare»] (pl., raro, –cie) come “atteggiamento, verso altri o verso sé stessi, che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità, e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità”. Ebbene, l’attuale valutazione negativa dei fatti, delle circostanze e delle relazioni che stiamo vivendo, unita alla difficoltà di prevederne gli sviluppi e di attingere a strategie reattive sperimentate nel passato, non potranno che pregiudicare l’affidamento nelle altrui e proprie possibilità, inibendo il “sentimento di sicurezza” e producendo diffidenza e senso di separatezza dagli altri, sui quali, per liberarci del disagio che questa situazione ci provoca, saremo portati a proiettare le nostre paure ed a riversare la colpa di ciò che stiamo vivendo. La perdita di fiducia (con le implicazioni ora viste) e la ridotta capacità di fare previsioni a lungo/medio termine (essendo venuti meno i consueti punti di riferimento e aumentate le variabili da considerare), unitamente all’umana tendenza/abitudine ad attribuire la genesi di ogni nostro problema a cause “esterne” e remote (coronavirus, restrizioni, reazioni altrui), piuttosto che a quelle “interne” e immediate (nostre reazioni a tali cause esterne), oltre che a “personalizzare” i problemi (ossia a identificare il problema con il soggetto cui ci contrapponiamo), ci porterà ad adottare atteggiamenti di chiusura che potrebbero manifestarsi, a vari livelli relazionali, mediante la restrizione del nostro “campo d’azione” e delle nostre iniziative (anche nell’intento di preservare ed ottimizzare le minori risorse disponibili, come ad es. quelle economiche), l’irrigidimento delle nostre posizioni e, in stretta connessione a questo, il maggiore controllo su di noi e sugli altri (affinché le cose vadano come noi pensiamo che debbano andare), oltre che l’incapacità di manifestare i reali bisogni e interessi che si nascondono dietro quelle posizioni, nell’errata convinzione che, palesandoli, appariremmo più deboli e, quindi, facilmente attaccabili. La resistenza al cambiamento e le implicazioni emozionali e comportamentali di tale condizione (paura, senso di insicurezza, mancanza di fiducia, chiusura, controllo, irrigidimento delle posizioni), così come le conseguenti decisioni e iniziative messe in atto nel tentativo di soddisfare i nuovi personali interessi che emergeranno dall’impatto “a catena” delle restrizioni sui rapporti interpersonali di varia natura, soprattutto su quelli già esistenti perché basati su presupposti, anche normativi, e valutazioni di opportunità non più attuali (pensiamo, ad es., al vincolo coniugale messo a dura prova dalla forzata protratta coabitazione tra coniugi abituati ad un diverso ménage famigliare, ovvero ai vincoli contrattuali con prestazioni che non si ha più interesse ad ottenere e/o con tempi e modalità di esecuzione difficili, se non impossibili, da rendere/rispettare), non potrà che generare nuovi conflitti, ancor più inaspriti dal senso di impotenza derivante dall’errata convinzione dell’ineluttabilità degli eventi (anche di quelli più prossimi alla nostra sfera di controllo). Conflitti che, come sopra accennato, con ogni probabilità e in gran parte, evolveranno in vere e proprie controversie giuridiche le quali, attesa la straordinarietà e complessità degli eventi e dei loro effetti, contempleranno fattispecie altrettanto complesse ed “extra ordinarie”, ove sarà particolarmente difficile stabilire chi ha torto e chi ha ragione e, quindi, accertare il presupposto indefettibile della risoluzione giudiziale delle controversie, con probabile allargamento, in quella sede, del thema decidendum e del thema probandum e con maggiori oneri e costi, anche in termini di tempo e di energie, gravanti su tutti i soggetti coinvolti nel procedimento (giudici, avvocati, parti processuali, CTU, etc..). Inoltre, l’esigenza (che emergerà – ritengo – in modo generalizzato), di rimediare alle nuove situazioni conflittuali nel minor tempo possibile (rischiando, diversamente, questa situazione di difficoltà, di compromettere l’esistenza stessa di realtà, ad es., imprenditoriali) aumenterà il ricorso ai procedimenti d’urgenza, con evidente aggravio del carico giudiziale. Ebbene, se l’analisi sin qui svolta ha un qualche fondamento, gli strumenti di risoluzione delle controversie alternativi a quello giudiziario, ed, in particolare, quelli che si avvantaggiano di competenze relazionali e conoscenza di tecniche negoziali potrebbero, a mio avviso, svolgere un ruolo importante, se non centrale e senza precedenti, nel dare una risposta adeguata alla crescente ed impellente richiesta di cambiamento che si paleserà attraverso i tanti rapporti conflittuali di “nuova generazione”, così da evitare un massiccio ed eventualmente insostenibile intervento del sistema giudiziario. Si perché questi procedimenti alternativi (la cui speditezza è rimessa alla volontà e capacità dei soggetti coinvolti di giungere all’epilogo – qualunque esso sia – con le tempistiche desiderate e/o necessarie a soddisfare, anche sotto tale profilo, i loro interessi), tenendo proprio in conto le sopra viste implicazioni emozionali e comportamentali di cui soprattutto i nuovi conflitti, in gran parte, si nutriranno, sveleranno nuove dinamiche conflittuali, in modo da consentire alle parti di prenderne coscienza e di transitare in una modalità di confronto non più ingabbiata da impulsi reattivi non consapevoli (perché dettati da automatismi emozionali e comportamentali messi in atto per difendersi dalla paura di soccombere), ma arricchita da una visione del conflitto in cui l’altro non è il problema, un nemico da incolpare e da combattere, bensì una risorsa essenziale per “entrare” dentro il problema stesso, riconoscendolo come generato da entrambe le parti (e non, dunque, solo “dall’altro”), per poi essere in grado di trovare una o più soluzioni che siano “creative” (in quanto non costrette entro gli argini dei diritti che si possono far valere in giudizio ed il cui riconoscimento è rimesso alla forza argomentativa delle parti ed alla valutazione delle prove a disposizione, secondo rigide norme procedurali), oltre che soddisfacenti (perché non autodeterminate, ma espresse dalle stesse parti in gioco per assecondare spinte motivazionali e bisogni profondi celati dietro le loro istanze immediate, come, ad es., il pretendere una somma determinata a titolo di risarcimento del danno subito, per eliminare l’incertezza del futuro e soddisfare il bisogno di sicurezza), oltre che sostenibili (perché individuate da chi le avrà negoziate e dovrà darvi esecuzione). Da qui, la formazione di nuove zone di confort, il superamento del senso di ineluttabilità e di separatezza e la riconquista della fiducia nelle nostre e altrui possibilità, di cui potersi avvantaggiare in altre esperienze e ambiti della vita, il tutto anche a vantaggio di una diffusa normalizzazione e reale pacificazione sociale. Guardare, dunque, con “fiducia” ed in prima istanza, a modalità di composizione delle liti alternative a quella giudiziaria che, per natura e aspirazione, pongano l’attenzione sulla volontà, responsabilità e collaborazione delle parti, sarà auspicabile per generare una nuova visione del conflitto ed attivare nuove risorse personali, soprattutto in un momento storico in cui sarà – a mio avviso – fondamentale agire con maggiore consapevolezza del potere di ognuno di generare rapporti virtuosi, anche in condizione di massima e generalizzata conflittualità, perché questo consentirà di superare la grave crisi mondiale in atto ancor più velocemente e, soprattutto, di costruire realtà più flessibili e permeabili ai cambiamenti. Cogliamo, dunque, l’opportunità che questo momento ci offre per provare a farlo!

Avv. Rosanna Bisegna