Il trattamento fiscale dei compensi straordinari erogati (in denaro e/o in natura) in favore degli amministratori di società, in aggiunta alla retribuzione ordinaria stabilita per lo svolgimento del loro incarico, presenta spesso questioni di non immediata soluzione, per lo più correlate all’altrettanto variegato inquadramento giuridico di tali erogazioni, che sono tipicamente subordinate al verificarsi di determinate condizioni.

Non tutti sanno, d’altra parte, che proprio tali forme di retribuzione “straordinaria”, da un lato, possono consentire una più agevole dimostrazione circa i requisiti di deducibilità per l’ente erogatore, e, dall’altro, sono esse stesse al centro di diverse misure di agevolazione alle imprese (sotto forma di sgravio per l’amministratore che le percepisce), il che, ne rende utile la conoscenza e l’adozione nella pratica societaria.

Sotto il profilo strutturale, il più delle volte l’erogazione di tali “bonus” è subordinata al raggiungimento di taluni obiettivi specifici, sotto forma di traguardi produttivi ovvero di risultati economici.

Non mancano, tuttavia, casi i cui il riconoscimento di bonus sia più semplicemente ad appannaggio di quegli amministratori che rivestano incarichi considerati più strategici per il raggiungimento dello scopo sociale.

Sotto il profilo del trattamento fiscale, è noto che, con riguardo agli amministratori legati all’impresa da un rapporto contrattuale di collaborazione continuativa (che quindi non ricoprano l’incarico in qualità di autonomi professionisti), le somme, e i valori in genere, da essi percepiti sono considerati redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, ai sensi dell’art. 50 co. 1 lett. c-bis) del TUIR. Con tutto ciò che ne consegue in termini di disciplina tributaria applicabile in capo ai percettori.

Proprio in ragione di tale equiparazione, in linea di principio, nella prospettiva dell’ente erogatore, tali compensi sono generalmente sempre deducibili dal reddito d’impresa, nell’anno in cui sono corrisposti, come disposto dall’art. 95 del TUIR. E ciò, sia che si tratti di retribuzione ordinaria, sia per quella componente retributiva che abbia carattere straordinario, nel senso sopra accennato.

Non va tuttavia dimenticato come la deducibilità dei compensi in questione, ordinari o straordinari che siano, non è incontestabile da parte dell’Amministrazione finanziaria, dovendo essi, innanzitutto, essere oggetto di un iter deliberativo tempestivo e conforme alle disposizioni dello statuto.

In proposito, infatti, si registra la rigida posizione della giurisprudenza tributaria, anche di legittimità, che pone, quali veri e propri requisiti di deducibilità dei costi in esame, quello del rispetto delle regole di deliberazione assembleare e consiliare (Cass. 4400/2020), nonché quello dell’espressa deliberazione, anche con riguardo al quantum (in tal senso non essendo sufficiente la delibera di approvazione del bilancio che tali costi contempli, secondo Cass. SS.UU. 21933/2008).

Sotto profilo diverso, ma parimenti funzionale alla piena deducibilità dei compensi in questione dal reddito d’impresa della società erogatrice, essi devono altresì rispondere a parametri di congruità e proporzionalità, e ciò, tanto con riferimento alle possibilità economiche e dimensionali della Società, quanto, soprattutto, avuto riguardo all’attività effettivamente svolta dal percettore (in tal senso, secondo la recente giurisprudenza della Cassazione n. 24379/2016, rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria “la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa”).

Alla luce delle considerazioni che precedono, appare evidente come possa risultare vantaggioso, per la società, stabilire un compenso straordinario per il proprio amministratore – ancorché congruo, e correttamente deliberato – ad esempio quale incentivo per la ripresa dell’attività economica, poiché ai fini della piena deducibilità dello stesso, il raggiungimento dell’obiettivo posto in delibera quale condizione dell’erogazione, così come l’attribuzione all’amministratore beneficiario di incarichi di particolare spessore rispetto alla mera funzione gestoria affidata all’organo collegiale, saranno, in ottica difensiva, elementi di maggiore peso specifico, a fronte di eventuali contestazioni in punto di proporzionalità e congruità del bonus conseguenzialmente riconosciuto al manager.

Poi, a parità (quantomeno) di requisiti di deducibilità, rispetto ai compensi di natura ordinaria, quelli di natura straordinaria consentono, come accennato, un significativo risparmio di imposta (direttamente a favore del percettore, e, quindi, indirettamente anche della società erogante, stanti le ben note dinamiche negoziali riscontrabili nell’ingaggio dei manager di imprese collettive di qualsivoglia dimensione), la cui ratio normativa risiede nell’incentivare logiche di retribuzione orientate all’incremento della produttività e del valore dell’impresa.

In tale ottica, viene in rilievo anzitutto l’art. 1, co. 182 e ss. della L. 208/2015 (come successivamente modificato dalla L. L. 232/2016, Legge di Bilancio per l’anno 2017), che ha definitivamente introdotto un regime fiscale di vantaggio per l’erogazione dei c.d. “premi di risultato” e per la “partecipazione agli utili dell’impresa”.

La norma, in particolare, dispone che tali premi, nonché le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa “salva espressa rinuncia scritta del prestatore di lavoro, sono soggetti a una imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 10%, entro il limite di importo complessivo di 3.000 euro lordi.

Ai fini di tale agevolazione, per premi di risultato si intendono “le somme di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione“.

Per “partecipazione agli utili dell’impresa”, il riferimento, invece, è agli utili distribuiti ai sensi dell’articolo 2102 del codice civile[1].

Vi sono poi una serie di condizioni ulteriori che limitano l’accesso al beneficio. Così, in particolare:

Qualora tali requisiti siano tutti rispettati, l’imposta sostitutiva è riscossa mediante ritenuta alla fonte da parte della stessa società erogante.

Ancor più vantaggiosa, da un punto di vista del risparmio fiscale, è il c.d. “welfare di produttività”, consistente nella possibilità di convertire il premio di rendimento oggetto di detassazione in beni e servizi esenti (in tutto o in parte) da imposizione.

In particolare, il Legislatore (cfr. art. 1, co. 184 della L. 208/2015) ha consentito che i premi di risultato in argomento possano essere interamente convertiti nei beni e servizi indicati nel comma 2 dell’art. 51 del TUIR, che, per espressa previsione legislativa “non concorrono a formare il reddito” e sono, pertanto, completamente esentasse per il percettore.

Affinché la conversione trovi applicazione occorre che siano rispettati i requisiti previsti per ciascuna misura di “welfare aziendale” stabilita dall’art. 51 in commento.

Così, per esempio, affinché il premio di risultato sia convertito in una somma destinata a “servizi di utilità sociale” (art. 51, co. 2, lett. f) del TUIR), ovvero a “prestazioni e servizi di educazione e istruzione” (art. 51, co. 2, lett. f-bis) del TUIR), occorre che i benefit siano offerti alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti e non siano, viceversa, ad personam (così la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 28/E/2016, nonché la risposta ad interpello n. 10/2019).

Quelle sopra esaminate sono solo alcune delle misure di agevolazione fiscale – spesso non adeguatamente recepite dal mondo imprenditoriale – di cui gli operatori economici potrebbero usufruire, senza incidere sui propri costi e/o sulla propria struttura operativa, se non nella misura strettamente necessaria a rispettare i requisiti all’uopo previsti dagli incentivi di legge.

[1] Come chiarito dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 28/E/2016, “non si tratta quindi dell’attribuzione di quote di partecipazione al capitale sociale bensì della modalità di erogazione della retribuzione, prevista dal libro V del codice civile nell’ambito della disciplina del rapporto di lavoro nell’impresa, secondo la quale il prestatore di lavoro può essere retribuito in tutto o in parte anche con partecipazione agli utili. Ai sensi dell’articolo 2102 del codice civile, la partecipazione agli utili spettante al prestatore di lavoro (articolo 2554 c.c.) è determinata in base agli utili netti dell’impresa, e, per le imprese soggette alla pubblicazione del bilancio (artt. 2423, 2435, 2464, 2491, 2516 del c.c.), in base agli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato e pubblicato (articolo 2433 e seguenti c.c.)”.