A partire dal 1° luglio è entrata in vigore la norma che dovrebbe, almeno negli intenti, stravolgere l’ambito di applicazione del contraddittorio preventivo in materia di accertamento dei tributi erariali (limitatamente alle sole imposte dirette e all’IVA), anticipando la tanto auspicata dialettica tra Fisco e contribuente – in un’ottica collaborativa – già nella fase istruttoria, prodromica all’emissione dell’atto impositivo.

In particolare, la disposizione (nuovo art. 5-ter del D.Lgs. 218/97) prevede che l’Agenzia delle Entrate, prima di notificare un avviso di accertamento, sia d’ora in poi obbligata, salvo i casi di particolare urgenza o di fondato pericolo per la riscossione, a convocare preventivamente il contribuente, al fine di instaurare con esso il procedimento di accertamento con adesione (attualmente relegato – almeno nella prassi – ad una fase meramente eventuale e successiva rispetto all’emissione dell’atto, destinata ora a ridimensionarsi, se non a scomparire con l’introduzione del nuovo istituto[1]).

L’obiettivo perseguito dal Legislatore è chiaramente quello di consentire agli uffici di acquisire anticipatamente dal contribuente tutti i chiarimenti relativi al proprio caso, al fine di evitare l’emissione di atti inutili e facilmente contestabili; ma anche quello di incentivare il più possibile il ricorso alla definizione bonaria della pretesa fiscale, anticipando così notevolmente la riscossione dei tributi (con conseguente riduzione delle sanzioni, in favore del contribuente, ad 1/3 del minimo[2]).

Si tratta – almeno sulla carta – di una vera e propria rivoluzione rispetto al modo tradizionale di concepire l’accertamento fiscale, in un’ottica sempre più deflattiva del contenzioso tributario, che, molte volte, è effettivamente generato da una scarsa (per non dire inesistente) interazione tra le parti coinvolte, durante tutta la fase di formazione del provvedimento amministrativo di accertamento e/o rettifica.

A fronte di un intento legislativo certamente meritevole e dei buoni propositi manifestati dall’Agenzia delle Entrate nella recente circolare di commento alla novella (n. 17/E/2020), l’utilità pratica della norma andrà tuttavia valutata in concreto, dal momento che il testo lascia aperti molteplici dubbi interpretativi di non poco conto, che rischiano addirittura di rendere totalmente priva di efficacia la disposizione in commento.

Se è vero, infatti, che il già menzionato documento di prassi esorta gli uffici a fare un ampio ricorso al nuovo strumento, invitando gli stessi ad utilizzarlo “anche nelle ipotesi accertative per le quali lo stesso non è obbligatoriamente previsto”, è altrettanto vero che i casi in cui l’attivazione del contraddittorio preventivo è effettivamente vincolante per il Fisco, con conseguente invalidità dell’atto, in caso di mancato invito al contribuente (cfr. co. 5), sono piuttosto limitati.

Sono infatti esclusi dall’ambito di applicazione della norma in questione tutti «i casi in cui sia stata rilasciata copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo». Dunque, ogniqualvolta l’accertamento sia preceduto da accessi, ispezioni e verifiche, con conseguente emissione di un PVC e relativo termine per le osservazioni del contribuente, il contraddittorio preventivo non dovrà essere obbligatoriamente esperito[3].

Restano inoltre fuori dal perimetro della norma anche gli accertamenti relativi alle imposte indirette (diverse dall’IVA)[4], nonché quelli per cui la partecipazione del contribuente in fase antecedente alla formazione dell’atto sia già prevista da altre disposizioni vigenti. Si tratta, in particolare, degli avvisi di accertamento fondati su studi di settore, degli accertamenti induttivi, degli accertamenti sintetici e di quelli concernenti fattispecie abusive, secondo la definizione dell’art. 10-bis dello Statuto.

L’obbligo del preventivo invito è altresì escluso nel caso in cui l’ufficio proceda all’emissione di avvisi di accertamento o di rettifica parziali ex art. 41-bis del D.P.R. 600/73 e art. 54, terzo e quarto comma, del D.P.R. 633/72.

Si tratta della limitazione certamente più significativa stabilita dalla novella legislativa, dal momento che, come noto, gli uffici finanziari sono soliti qualificare – spesso anche impropriamente – tutti i propri accertamenti come parziali, attraverso l’inserimento di una “clausola di salvaguardia”, volta a non pregiudicare eventuali ulteriori attività accertative (purché esperite entro i termini di decadenza ordinari)[5].

Del resto, quantomeno con riguardo alle imposte dirette – a differenza dell’IVA – l’art. 41-bis del D.P.R. 600/73 non pone particolari limitazioni per l’utilizzo dell’accertamento parziale, cui l’ufficio può liberamente ricorrere, in deroga al principio di unicità dell’accertamento tributario, ogniqualvolta sia venuta a conoscenza, attraverso qualsiasi fonte, di elementi fondanti una pretesa fiscale, riservandosi ulteriori approfondimenti al prosieguo della verifica.

A tal proposito, la circolare 17/E sembra voler restringere i margini di discrezionalità in capo agli uffici, stabilendo che, anche per le imposte dirette, debbano trovare applicazione i limiti imposti dall’art. 54 del Decreto IVA. Si tratta della norma che limita il ricorso all’accertamento parziale ai soli casi in cui il maggiore imponibile “risulti in modo certo e diretto, e non in via presuntivache così resterebbero esclusi dal campo di applicazione del nuovo contraddittorio preventivo.

L’invito al contraddittorio dovrebbe viceversa essere obbligatoriamente notificato allorché l’accertamento sia fondato, anche solo in parte, su deduzioni dell’ente accertatore e/o su presunzioni.

Nonostante il pregevole sforzo interpretativo dell’Agenzia delle Entrate, la norma, così come formulata, continua, intanto, a prestare il fianco a diverse critiche: in primo luogo, in quanto non individua con certezza, almeno ai fini delle II.DD., i casi in cui l’amministrazione può legittimamente ricorrere all’uso dell’accertamento parziale (si è detto che l’art. 41-bisdel D.P.R. 600/73, cui la norma in commento genericamente rinvia, è, in realtà, disposizione priva di limiti specifici); in secondo luogo, in quanto non sanziona direttamente un eventuale utilizzo abusivo dello strumento accertativo parziale da parte degli uffici finanziari.

Spetterà allora al contribuente contestare, nelle opportune sedi giudiziarie, l’eventuale mancata attivazione del contraddittorio preventivo da parte degli uffici, attraverso una puntuale dimostrazione dell’uso abusivo del metodo parziale, con l’ulteriore onere, a suo esclusivo carico, della c.d. “prova di resistenza”.

A tal proposito, infatti, la novella normativa dispone che la mancata attivazione del contraddittorio preventivo, ove obbligatoriamente previsto, determina l’invalidità assoluta dell’atto eventualmente emesso, a condizione, però, “che il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato[6].

Secondo la Cassazione per superare la c.d. “prova di resistenza” è necessaria la dimostrazione, in sede giudiziale, che “il contraddittorio procedimentale, se vi fosse stato, non si sarebbe risolto in un puro simulacro, ma avrebbe rivestito una sua ragion d’essere, affinché l’eccezione di invalidità dell’atto per mancata attivazione del contraddittorio endoprocedimentale “non si riveli puramente pretestuosa e tale da configurare (…) sviamento allo strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali l’ordinamento lo ha predisposto” (cfr. Cass. SS.UU. 24823/2015, richiamata anche nel documento di prassi in commento).

Anche su tale versante la novella normativa mostra il suo limite nel prevedere l’inversione dell’onere della prova, attribuendo al contribuente, che intenda invocare la nullità dell’atto, l’incombente di dover dimostrare in giudizio le ragioni che avrebbe potuto far valere in sede amministrativa, ove fosse stato regolarmente convocato per l’instaurazione del contraddittorio.

La difesa del contribuente in giudizio sarà allora essenziale sia al fine di dimostrare l’illegittimità di una mancata convocazione da parte del Fisco, sia per superare il vaglio della “prova di resistenza”.

Altrettanto delicata – e possibile oggetto di futuri contenziosi con l’Amministrazione – è la questione relativa alla c.d. “motivazione rafforzata” degli atti che saranno emessi in seguito all’instaurazione del nuovo contraddittorio preventivo: la norma testualmente recita che “in caso di mancata adesione, l’avviso di accertamento è specificamente motivato in relazione ai chiarimenti forniti e ai documenti prodotti dal contribuente nel corso del contraddittorio”. Tuttavia, si tratta, ancora una volta, di una disposizione monca, in quanto, da un lato, lascia un ampio margine di discrezionalità circa lo standard minimo da adottare affinché l’atto possa considerarsi adeguatamente motivato, e, dall’altro, in quanto non sanziona in alcun modo la sua violazione.

A fronte del vuoto legislativo, sul punto si registra solo la chiara posizione dell’Amministrazione finanziaria: si legge nella più volte citata circolare 17/E (§4) che “non è sufficiente che gli uffici si limitino a valutare gli elementi forniti dal contribuente, ma dovranno essere argomentate in motivazione le ragioni del relativo mancato accoglimento”.

Appare dunque nuovamente pregevole l’interpretazione fornita dall’Agenzia, che sembra stabilire un vero e proprio obbligo di motivazione rafforzata dell’atto, pur a fronte di una disposizione normativa poco incisiva. Non può tuttavia escludersi che i singoli uffici locali difenderanno in giudizio i propri atti, anche ove non adeguatamente motivati circa i chiarimenti forniti dal contribuente.

Resta infine la delicata questione relativa alla proroga dei termini di decadenza connessa all’applicazione della norma in commento.

Il decreto che ha introdotto il nuovo istituto del contraddittorio preventivo obbligatorio, infatti, ha altresì disposto una proroga straordinaria – per 120 giorni – dei termini di decadenza relativi all’attività di accertamento.

La proroga opera allorché tra la data di comparizione del contribuente dinnanzi all’ufficio e il termine ultimo per la notifica dell’atto intercorra un periodo di tempo inferiore a 90 giorni.

Sono così prorogati di 4 mesi gli accertamenti in scadenza al 31 dicembre per i quali l’Amministrazione abbia attivato – anche facoltativamente – il contraddittorio preventivo, con comparizione del contribuente fissata in data successiva al 1° ottobre del medesimo anno.

Vi è già chi alimenta il sospetto che l’ufficio possa ricorrervi, anche arbitrariamente, allorché si trovi impossibilitato, per qualsiasi ragione, a notificare il provvedimento impositivo entro gli ordinari termini di decadenza.

Ancora una volta la difesa del contribuente sarà quindi essenziale per dimostrare eventuali utilizzi distorti dello strumento normativo da parte del Fisco, finalizzati esclusivamente ad ottenere una dilatazione temporale delle proprie scadenze.

In definitiva, ci sarà quindi materia su cui andare a verificare gli effetti pratici di questa nuova norma.


[1] Allorché il contribuente riceva l’invito al contraddittorio preventivo, infatti, a prescindere da una sua effettiva risposta e partecipazione, egli non potrà più attivare il procedimento di accertamento con adesione in seguito alla notifica dell’avviso di accertamento.

[2] Cfr. art. 2, co. 5 del D.Lgs. 218/1997.

[3] Il Legislatore ha ritenuto che in questo caso la dialettica tra Fisco e contribuente sia già efficacemente garantita dal disposto dell’art. 12, co. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, che stabilisce un termine di 60 giorni, decorrente dalla data di notifica del verbale di constatazione, per la presentazione di eventuali osservazioni da parte del contribuente (di cui, poi, l’ufficio deve obbligatoriamente tenere conto in sede di emissione del provvedimento). Nondimeno, la circolare 17/E/2020 (§3) afferma che “seppur non obbligatorio per legge, è sempre opportuno che l’ufficio attivi il contraddittorio anche nei casi di attività accertativa correlata agli esiti di un processo verbale di chiusura delle operazioni, al fine di addivenire quanto più possibile alla corretta individuazione della pretesa tributaria”.

[4] La collocazione sistematica della norma all’interno del capo II del D.Lgs. 218/1997, relativo alla definizione dei soli accertamenti in materia di imposte sui redditi e IVA, ha indotto l’Agenzia delle Entrate (cfr. Circolare 17/E/2020; §2) a ritenere che la norma trovi applicazione limitatamente alle seguenti imposte: Ires, Irpef (e relative addizionali), Irap, contributi previdenziali, ritenute, IVA, IVIE e IVAFE.

[5] Si è infatti soliti leggere negli accertamenti fiscali emessi dalle varie Direzioni Provinciali che “resta impregiudicata la facoltà dell’Amministrazione Finanziaria di compiere ulteriori azioni accertatrici nei termini di legge”.

[6] Si tratta di una disposizione che ricalca quanto già stabilito dalla giurisprudenza di vertice (tanto comunitaria, quanto interna) circa la violazione delle disposizioni in materia di contraddittorio endoprocedimentale: non è sufficiente per il contribuente lamentare la mancata convocazione o la mancata risposta alle proprie osservazioni, ma è altresì necessario che lo stesso dimostri che le proprie ragioni, ove debitamente prese in considerazione, avrebbero potuto condurre ad un risultato diverso rispetto a quello raggiunto.