I dividendi transfrontalieri sono materia frequentemente all’ordine del giorno, perché la tassazione dei flussi reddituali tra consociate residenti in diverse giurisdizioni tributarie è fondamentale nella pianificazione strategica di qualsiasi ramificazione internazionale di gruppi di impresa.

Trattasi di contesto normativo in continua evoluzione, con costante aggiornamento di regole domestiche, convenzionali (ossia derivanti da accordi bilaterali tra singoli Stati), e comunitarie, sempre in bilico, tra la tradizionale esigenza di salvaguardare la piena potestà impositiva dei governi nazionali, e il più contemporaneo obiettivo di assecondare, o quantomeno di non intralciare, sane dinamiche di circolazione dei capitali.

Come molti sanno, la tecnica di tassazione comunemente adottata in relazione ai dividendi c.d. “in uscita” (ossia percepiti da società residenti in Stati diversi da quello della società che li distribuisce) è quella dell’applicazione di una ritenuta alla fonte, a titolo d’imposta, tipicamente con aliquota variabile in funzione, per l’appunto, delle regole, più o meno severe, di volta in volta applicabili. In tal modo, gli Stati c.d. “di origine” si assicurano un prelievo sui redditi ivi generati che, altrimenti, non sarebbe recuperabile in capo alla beneficiaria estera.

Questo è il sistema adottato in Italia (esaminato in dettaglio in un nostro recente contributo: https://www.4clegal.com/opinioni/dividendi-uscita-presupposto-soggettivita-passiva-dimposta-holding-estera), e anche, tra gli altri, dall’ordinamento francese, talune delle cui disposizioni sono state oggetto di una recente critica della Corte di Giustizia UE (sentenza del 22 novembre 2018, C-575/17), nella parte in cui, in materia di tassazione di dividendi, esse si traducevano in una vietata penalizzazione per le controllanti estere, rispetto a quelle residenti in Francia.

In questo caso, gli spunti della Corte europea sono interessanti, non solo perché, per legge unionale, essi sono direttamente efficaci verso eventuali fattispecie comunitarie analoghe (mediante disapplicazione di norme domestiche in contrasto), ma anche perché tradiscono tutta la difficoltà di un reale coordinamento tra le regole sostanziali di natura tributaria di diversa fonte (nazionale, unionale o convenzionale).

In estrema sintesi, nella causa in questione la Corte ha ritenuto che rappresentasse una disparità di trattamento e un’ingiustificata[1] restrizione alla fondamentale libertà di circolazione dei capitali di cui agli artt. 63 e 65 TFUE[2], il differente trattamento dei dividendi distribuiti senza applicazione di ritenuta da una società francese ad altra società francese in perdita rispetto al trattamento dei medesimi distribuiti ad una società belga, parimenti in perdita, in questa ipotesi, con assoggettamento a ritenuta.

Nel caso di specie, la disciplina transalpina è stata quindi censurata dai giudici dell’Unione, per due ordini di motivi: in primis, per il vantaggio di tesoreria che ne derivava per le beneficiarie nazionali in perdita fiscale, le quali soltanto potevano beneficiare del rinvio del versamento delle imposte dovute sui dividendi percepiti, ad un periodo d’imposta successivo a quello di distribuzione; ed anche in ragione del vantaggio di definitiva detassazione di quei medesimi dividendi, di cui soltanto le beneficiarie nazionali avrebbero potuto godere, nel caso in cui esse, successivamente alla percezione in un esercizio chiuso in perdita, avessero cessato l’attività senza mai tornare in utile fiscale.

Le implicazioni di tale decisione sono tuttavia molteplici, e trascendono il caso in essa considerato.

Innanzitutto, viene espresso il principio per cui le società estere, residenti in un Paese membro, che abbiano percepito dividendi assoggettati a ritenute in un altro Stato membro potrebbero aver diritto di ottenere il rimborso delle ritenute alla fonte applicate negli anni di percezione in cui si trovavano in perdita fiscale.

Trattasi di ipotesi interessante anche per il nostro ordinamento visto che in Italia vige lo stesso regime di base (francese) censurato dalla Corte europea.

È possibile inoltre fare una riflessione di natura sistematica che deriva dalle difese sviluppate dal Fisco transalpino, il quale aveva eccepito (con argomento reputato non sufficiente dalla Corte) come la tassazione domestica dei dividendi, con aliquota dell’epoca al 33%, fosse, di regola, più onerosa per i percettori francesi, di quella – al 15% – convenzionalmente applicata, con ritenuta alla fonte, ai percettori residenti in Belgio.

È questo un argomento che costituisce una delle molte manifestazioni del problema di fondo col quale si scontra qualsiasi tentativo di omogeneizzazione e coordinamento del diritto tributario internazionale: vale a dire la naturale e insopprimibile potestà dei singoli Stati di dettare, in casa propria, regole di determinazione del reddito imponibile non necessariamente uniformi o anche solamente compatibili con quelle delle altre giurisdizioni. Con la conseguenza che, giusto per fare un esempio coerente con l’argomento in trattazione, i medesimi risultati economici registrati da una società in un dato esercizio potrebbero dar luogo a risultati fiscali profondamente diversi nelle diverse giurisdizioni interessate. Ed è di facile comprensibilità come la mancata armonizzazione, a monte, dei presupposti impositivi, si presti a creare molte limitazioni alla libertà di circolazione e violazioni al principio di non discriminazione tutelati dalla normativa unionale e, talvolta, anche da convenzioni internazionali.

In un simile, complesso, scenario, ciò che fa la differenza tra una strategia di ramificazione internazionale (anche) fiscalmente efficiente, e una delocalizzazione dagli effetti deleteri (nel breve periodo), se non disastrosi (nel medio), è solo una ponderazione quanto mai attenta ed esperta, non solo delle regole vigenti nelle giurisdizioni coinvolte, ma altresì dei meccanismi interpretativi ed applicativi che presiedono, in modo integrato, al funzionamento di un sistema che vuole tendere – almeno nei principi – all’armonizzazione ad al contrasto delle pratiche fiscali abusive e/o aggressive.


[1] La Corte ha statuito, contrariamente a quanto sostenuto dal Governo francese, che una simile restrizione non fosse giustificata da differenze nella situazione in cui si trovavano i contribuenti (ossia la differenza residenza fiscale), né da finalità di maggior gettito per l’Erario francese, né da eventuali difficoltà nella fase di riscossione dell’imposta.

[2] Secondo la Corte di Giustizia, le restrizioni dei movimenti di capitali “comprendono quelle che sono idonee a dissuadere i non residenti dal compiere investimenti in uno Stato membro o a dissuadere i residenti di detto Stato membro dal compierne in altri Stati” (cfr. la citata sentenza CGUE C-575/17).