La recentissima risposta ad interpello n. 407 del 24 settembre 2020 offre lo spunto per ritornare sul problema (ahinoi ancora dai confini incerti) della qualificazione dei redditi derivanti da partecipazioni con diritti patrimoniali rafforzati (i cd. carried interest) assegnati ai key managers nell’ambito di piani di incentivazione (già da noi affrontato nel precedente contributo https://www.carmini-law.com/carried-interest-e-nuovi-strumenti-partecipativi/).
I proventi da carried interest (normalmente, attribuiti a lavoratori dipendenti particolarmente qualificati) soffrono da sempre della loro difficile qualificazione, derivante dalla loro natura ibrida che si pone a cavallo tra un investimento di capitale e la remunerazione per l’attività svolta, derivando, in via generale, proprio dalla preminenza dell’una o dell’altra natura, l’individuazione della corretta qualificazione come redditi di capitale ovvero redditi da lavoro dipendente[1].
Come noto, il beneficiario ha, in linea di massima, interesse a vedere qualificati tali redditi come proventi di natura finanziaria stante l’applicazione di un regime fiscale nettamente più favorevole (a titolo esemplificativo, imposizione con aliquota del 26% invece dell’applicazione delle ordinarie aliquote IRPEF a scaglioni).
Nel tempo, l’Amministrazione finanziaria, a partire dalla nota circolare n. 25/2017, ha enucleato una serie di indici (non particolarmente elastici) per individuare la natura dei redditi in questione, che trovano ulteriore specificazione nella recente e summenzionata risposta ad interpello.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate, negando la qualifica di reddito da capitale proposta dalla SGR istante, ha ritenuto che i redditi derivanti dalle partecipazioni in un fondo (istituito dalla medesima SGR), attribuiti ad alcuni manager della stessa, non avessero natura di remunerazione del capitale investito (con partecipazione degli stessi al rischio di impresa), bensì natura di corrispettivo variabile della loro remunerazione, come dipendenti (concorrendo quindi alla formazione dei loro redditi da lavoro dipendente). Tale conclusione, condivisibile o meno, è avvenuta sulla base di una serie di valutazioni e/o circostanze fattuali che caratterizzavano il piano di incentivazione e delle quali quindi è utile tenere conto.
In primo luogo, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che l’entità dell’investimento effettuato dai manager (per la verità consistente, come affermato dalla società istante e dimostrato anche dalla necessità, da parte dei manager, di ricorrere a forme di finanziamento per sostenerne la sottoscrizione) non fosse sufficientemente ampia, da denotare un allineamento degli interessi di quest’ultimi con quelli degli ordinari investitori del fondo.
In secondo luogo, l’Amministrazione ha rilevato una serie di circostanze, qualificate come indici della natura di reddito da lavoro dei predetti proventi. In particolare:
- (i) la circostanza che l’ordinaria remunerazione dei suddetti manager consistesse esclusivamente di una parte fissa (mancando una parte variabile che li rendesse partecipi dell’andamento del fondo);
- (ii) la presenza di alcune affermazioni nei verbali del CDA della SGR, ove si leggerebbe che il sistema premiante sarebbe da individuarsi nell’attribuzione dei suddetti carried interest, assimilabili ad una forma di incentivo (che, nell’ottica dell’Ufficio, rappresenterebbero di fatto – e sostituirebbero – la quota variabile della remunerazione);
- (iii) la previsione di clausole di bad e good leaver che, pur non prevedendo la perdita dei diritti patrimoniali rafforzati al cessare del rapporto di lavoro (indice più volte utilizzato dall’Amministrazione per attribuire natura di compenso da lavoro a tali proventi), determinavano, in ogni caso, una diminuzione dei carried interest in forza del momento di cessazione del rapporto tra i manager e la SGR.
Si evidenzia, dunque, che la prassi dell’Amministrazione finanziaria resta piuttosto restrittiva nell’ammettere la qualificazione dei carried interest quali reddito da capitale (pur essendo evidente, nel caso di specie, la natura di investimento finanziario, vista l’entità dell’esborso sostenuto dai sottoscrittori[2]), e come resti di fondamentale importanza operare un’attenta analisi e strutturazione dell’intero piano di incentivazione (dal relativo regolamento, al wording da utilizzare nelle delibere di approvazione e negli accordi con i managers) al fine di evitare che tali proventi vengano qualificati (magari a posteriori, in sede di verifica e/o di accertamento, con negativi effetti sui diretti beneficiari ed anche sulla società datrice di lavoro e sostituto di imposta) come reddito di lavoro, con applicazione della più elevata aliquota d’imposta e, conseguente rischio di vanificare l’appeal dell’incentivo stesso.
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[1] In realtà, il Legislatore ha previsto, con l’emanazione dell’art. 60 D.L. 50/2017, una presunzione legale secondo la quale i proventi da carried interest, al ricorrere di determinate condizioni previste nel medesimo articolo, devono sempre essere qualificati quali redditi di capitale. Tuttavia il tema della corretta qualificazione permane per la restante parte dei casi (in realtà, la maggior parte) ove tali requisiti non possono essere soddisfatti.
[2] Elemento che, in realtà, in un differente caso (i.e. risposta ad interpello n. 473/2020), ha invece fatto propendere l’Agenzia per la qualificazione dei proventi derivanti da strumenti finanziari partecipativi (destinati ad amministratori) come redditi di capitale.