Con ordinanza del 2 marzo 2021 (Cassazione civile sez. I – 02/03/2021, n. 5666) la Corte di Cassazione fornisce alcuni innovativi spunti interpretativi in relazione alla liquidazione del danno per violazione di una privativa brevettuale ex art. 125 CPI.
Accogliendo, in parte, il ricorso di un’azienda operante nel settore degli spurghi (che lamentava l’esiguità del risarcimento del danno attribuitole dalla Corte di Appello per la contraffazione di un proprio brevetto, in applicazione dell’art. 125.2 CPI), la Corte afferma che l’art. 125.2 CPI detta una “regola speciale di liquidazione equitativa, consentendo che il giudice liquidi il danno ‘in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano’ ” e che “il criterio del giusto prezzo del consenso o della giusta royalty, vale a dire del compenso che il contraffattore avrebbe pagato al titolare se avesse chiesto ed ottenuto una licenza per utilizzare l’altrui privativa industriale, opera come ulteriore elemento di valutazione equitativa “semplificata” del lucro cessante e come fissazione di un limite minimo o residuale di ammontare del risarcimento, voluto dal legislatore a garanzia della effettività della compensazione”
Secondo la Corte, infatti, “alla luce del nuovo dettato dell’art. 125 c.p.i., (…) deve ormai darsi rilievo alla specifica disciplina dettata dal comma 2, in base al quale il giudice può liquidare il danno in una ‘somma globale stabilità in base agli atti di causa ed alle presunzioni che ne derivano’, sulla base, quindi, anche solo di elementi indiziari offerti dal danneggiato e, nel caso il titolare non sia riuscito a dimostrare il mancato guadagno, il lucro cessante potrà essere liquidato con il ricorso al metodo alternativo della giusta royalty o royalty virtuale, senza l’onere per il titolare della privativa di dimostrare quale sarebbe stata la certa royalty pretesa in caso di ipotetica richiesta di una licenza da parte dell’autore della violazione, non rappresentando detto criterio il danno effettivamente subito ma un c.d. “minimo obbligatorio“.
Quanto alla retroversione degli utili di cui all’art. 125.3 CPI, la Corte afferma trattarsi “sempre di una forma di ristoro, forfettario, del lucro cessante” che trascende “una mera e tradizionale funzione esclusivamente riparatoria o compensativa del risarcimento del danno, nei limiti del pregiudizio subito dal soggetto danneggiato” assumendo “una funzione, se non propriamente sanzionatoria, diretta, quantomeno, ad impedire che il contraffattore possa arricchirsi mediante l’illecito consistito nell’indebito sfruttamento del diritto di proprietà intellettuale altrui”, a tal fine richiamando quanto chiarito dalle SS.UU (Cass. 16601/2017) circa la non estraneità, al sistema della responsabilità civile, delle funzioni di deterrenza e sanzionatoria, proprio richiamando la normativa nazionale in materia di tutela della proprietà intellettuale.
La Corte ritiene pertanto ammissibile la richiesta del titolare della privativa di quantificare il danno, non in base al criterio residuale, e minimale, della giusta royalty, ma in base al criterio del c.d. “lucro cessante reale“, corrispondente alla somma che avrebbe ricavato il titolare del brevetto “se avesse venduto lui (invece del contraffattore) i prodotti contraffattori al medesimo prezzo a cui li ha invece commercializzati il contraffattore“, attraverso l’applicazione del proprio margine di utile lordo (MOL, incrementale) al fatturato del contraffattore, affermando il conseguente principio di diritto.
La Corte non ha invece accolto il motivo di ricorso con il quale il titolare della privativa si doleva della mancata applicazione, nel contesto del criterio liquidatorio della giusta royalty, di una “doverosa” maggiorazione della royalty media individuata. Pur dando atto che la giurisprudenza di merito ritiene sovente “equa una congrua maggiorazione (in termini almeno di raddoppio) dell’importo della royalty ricavabile dall’analisi del mercato di riferimento” (per compensare il fatto che il contraffattore non assume costi e rischi tipici del titolare della privativa o del licenziatario, e può generalmente permettersi applicare prezzi ridotti), la Corte non ritiene tuttavia che tale maggiorazione, come assumeva il ricorrente, sia obbligatoria.
Avv. Filippo Canu