La recente risposta ad interpello n. 195/2021 dell’Agenzia delle Entrate offre l’occasione per approfondire la questione relativa al trattamento fiscale cui assoggettare le somme corrisposte al coniuge, nell’ipotesi di scioglimento dell’impresa familiare e di passaggio dal regime patrimoniale di comunione legale dei beni a quello di separazione.

Onde comprendere la portata dell’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria, occorre ricordare che l’impresa familiare, nonostante il suo carattere residuale (1), è, in Italia, una realtà imprenditoriale ancora molto diffusa, che trova la propria legittimazione normativa nella previsione dell’art. 230-bis del codice civile.
La ratio della norma è quella di fornire un apposito riconoscimento normativo all’attività lavorativa prestata dai familiari (coniuge, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo grado), nell’ambito dell’impresa individuale condotta in via principale da uno di essi.

Difatti, la struttura è assimilabile a quella della ditta individuale, in cui assume un ruolo centrale la figura dell’imprenditore, con previsione, però di una specifica valorizzazione, in termini formali, fiscali e contributivi del lavoro svolto in maniera continuativa dai familiari dell’imprenditore stesso.
In ciò l’impresa familiare si distingue, tra l’altro, dall’istituto atipico dell’azienda coniugale, la quale è viceversa condotta esclusivamente dai coniugi, senza l’apporto di altri soggetti.

Sul piano dei diritti amministrativi e patrimoniali, ai familiari dell’imprenditore è riconosciuta in particolare, per effetto della collaborazione prestata, la possibilità di indirizzare l’attività d’impresa, oltre al diritto al mantenimento, alla partecipazione agli utili, alla ripartizione degli incrementi aziendali ed alla liquidazione della quota.

Sul fronte fiscale, invece, è stato previsto che i redditi derivanti dall’esercizio dell’attività d’impresa possano essere imputati pro quota – ma, in ogni caso, entro il limite massimo del 49% del totale conseguito (2)– a ciascun familiare che abbia prestato la propria attività in modo continuativo nel corso del periodo d’imposta e, conseguentemente, tassati per trasparenza in capo a tale soggetto.

Ciò che risultava controverso era invece il trattamento cui sottoporre la liquidazione del familiare in caso di scioglimento dell’impresa.

A tal proposito, l’amministrazione finanziaria ha chiarito che tale importo non assume rilevanza fiscale, ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi, trattandosi, da un lato, di somma pagata dall’imprenditore, cui non corrisponde un costo per l’impresa (risultando, quindi, per essa, tale onere, indeducibile); dall’altro avendo lo stesso già scontato il prelievo impositivo per effetto dell’applicazione del regime di trasparenza.

Ai fini delle imposte indirette, invece, poiché risulta indispensabile formalizzare, con apposito atto, la cessazione della collaborazione, per poter determinare il venir meno degli effetti reddituali da essa derivanti, le parti dovranno predisporre un’apposita scrittura privata autenticata, ovvero un atto pubblico, i quali sconteranno l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa, ai sensi dell’art. 4, co. 1, lettera c) della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 131/1986. Alla stessa imposta fissa dovrà altresì essere assoggettato l’atto di attribuzione delle quote di liquidazione, il quale pure dovrà essere redatto nella forma della scrittura privata autenticata o dell’atto pubblico.

Con l’occasione, l’Agenzia delle Entrate ha inoltre affrontato il tema della tassazione cui viene assoggettata la somma eventualmente corrisposta al coniuge – ulteriore rispetto a quella dovuta per effetto della liquidazione della sua “partecipazione” nell’impresa familiare, di cui ci siamo occupati sin d’ora – in ipotesi di passaggio dal regime di comunione legale dei beni a quello di separazione.

Ai sensi dell’art. 178 c.c., infatti, “i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”. Si tratta della cosiddetta comunione de residuo.

Con tale espressione si è soliti identificare, in particolare, quella particolare forma di comunione, residuale e differita, che viene a formarsi tra i coniugi nel momento dello scioglimento del regime patrimoniale legale e a condizione che i beni che ne costituiscono oggetto non siano stati consumati prima di tale momento.

Orbene, poiché, come visto, l’impresa familiare è assimilabile, in tutto e per tutto, alla ditta individuale di uno dei coniugi – con la sola differenza di prevedere la remunerazione obbligatoria dei componenti della famiglia che prestino la propria attività lavorativa, in forma continuativa, al servizio dell’impresa – può accadere che, al momento del passaggio da un regime patrimoniale all’altro, i beni destinati all’esercizio dell’attività, ovvero gli incrementi dell’impresa, entrino a far parte della comunione de residuo, con conseguente necessaria attribuzione al coniuge degli stessi, nella misura del 50%.

A tal proposito, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che, posto che l’atto con il quale i coniugi provvedono alla divisione dei beni ha natura dichiarativa, le somme liquidate non assumono rilevanza fiscale, ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi, poiché attengono a vicende giuridiche interne ai coniugi e, di conseguenza, non sono inquadrabili in alcuna delle categorie di reddito previste dal TUIR.

L’Agenzia delle Entrate giunge a simili conclusioni riprendendo quanto già disposto dalla Corte di Cassazione (3). La Suprema Corte, infatti, aveva già chiarito che, in caso di mutamento del regime patrimoniale, i beni e i frutti dell’impresa rientranti nella comunione de residuo, essendo già stati tassati, nel momento della loro maturazione, in capo al coniuge-imprenditore, non assumono rilevanza reddituale allorquando siano attribuiti all’altro coniuge, avendo tale atto di trasferimento natura meramente patrimoniale.

Sotto il profilo dell’imposizione indiretta, l’atto di divisione, proprio in ragione della sua natura dichiarativa, sconta l’applicazione dell’imposta di registro proporzionale nella misura dell’1%, ai sensi dell’art. 3 della Tariffa, parte prima, allegata al TUR.

In conclusione, l’Agenzia delle Entrate, allineandosi all’orientamento già espresso dalla giurisprudenza, ha riconosciuto la possibilità di concludere l’esperienza dell’impresa familiare e anche del rapporto di comunione tra i coniugi, senza il timore di applicazione di gravose imposte dirette e con il solo onere costituito dall’imposta di registro dovuta sugli atti occorrenti per formalizzare lo scioglimento di tali rapporti, che, tuttavia, per godere di simile trattamento, devono essere formati, sviluppati e conclusi nel rispetto delle regole che presiedono a simili istituti, profilandosi, altrimenti (come sempre) lo spettro dell’abuso.

Carmini Avvocati Associati

—–

(1)  La legge – art. 230-bis c.c. – prevede, infatti, che l’impresa familiare sussista «salvo che sia configurabile un rapporto diverso».

(2) Cfr. art. 5, co. 4 del TUIR.

(3) Corte di Cassazione, 11 novembre 2020, n. 25415.