In Italia siamo abituati a considerarci un po’ in ritardo, in particolare rispetto ad altri paesi europei che sembrano sempre essere “più avanti di noi”. In realtà così non è, come dimostra una recente pronuncia della Corte di Giustizia che giunge, con qualche anno di ritardo, a conclusioni che per noi possono dirsi pacifiche in ambito di pubblicità occulta.

Con sentenza 2 settembre 2021, in causa C-371/20, la Corte ha fornito un’interpretazione pregiudiziale del punto 11 dell’Allegato alla direttiva 29/2005 sulle pratiche commerciali scorrette. Come è noto, l’All. I prevede un elenco tassativo di pratiche commerciali ritenute «in ogni caso» scorrette, o perché ingannevoli (punti da 1 a 23), o perché aggressive (punti da 24 a 31). La disposizione oggetto della pronuncia pregiudiziale riguarda la pubblicità occulta, prevedendo che sia sempre ingannevole «impiegare contenuti redazionali nei media per promuovere un prodotto, qualora i costi di tale promozione siano stati sostenuti dal professionista senza che ciò emerga chiaramente dai contenuti o da immagini o suoni chiaramente individuabili per il consumatore (advertorial ovvero pubblicità redazionale)».

La causa principale da cui ha preso le mosse la pronuncia pregiudiziale riguardava un articolo comparso su un settimanale tedesco, dedicato a una serata di vendite private organizzata da un negozio di abbigliamento. La questione, come sempre accade in caso di pubblicità redazionale occulta, era se considerare l’articolo in questione un semplice articolo informativo, oppure un messaggio promozionale, in cui non era chiarita la natura commissionata dello stesso. Era pacifico in causa che l’evento era stato organizzato dal negozio di abbigliamento e dalla rivista assieme, e i costi erano stati sostenuti da entrambi; il negozio di abbigliamento aveva anche messo a disposizione i propri locali e il proprio personale per l’organizzazione dell’evento, oltre a cedere gratuitamente alla rivista i diritti di utilizzo delle immagini pubblicate sulla rivista.

La questione sottoposta alla Corte dal giudice tedesco era se, nel caso di specie, il negozio di abbigliamento «avesse sostenuto i costi» per la pubblicazione dell’articolo, anche se da parte sua non c’era stato alcun esborso monetario.

La Corte, giungendo alle stesse conclusioni raggiunte qualche anno fa dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, ha rilevato che la norma in discussione richiede un collegamento, nel senso di contropartita, tra il vantaggio patrimoniale fornito dal professionista e il contenuto redazionale. La norma però non prevede alcun importo minimo del finanziamento, né richiede una proporzione tra detto finanziamento ed il valore economico totale dell’operazione promozionale e non esclude che il media sostenga una parte di detti costi. Il fatto che il professionista (negozio di abbigliamento, in questo caso) metta gratuitamente a disposizione spazi e materiale coperto da diritto d’autore ha indubbiamente valore patrimoniale, ed è indubbiamente diretto a promuovere le vendite dei prodotti del professionista.

Insomma, come anticipato, niente di nuovo per noi italiani!

Avv. Chiara Pappalardo