Come molti ricorderanno, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, la mascherina biotech U-Mask, all’epoca molto in voga anche tra i vip, finì al centro di varie inchieste. La Procura di Milano ne dispose il ritiro dal mercato sospettando che non avesse la capacità filtrante dichiarata e non avesse passato il vaglio dell’Istituto Superiore di Sanità, come invece sostenuto.

A seguito di carenze riscontrate nella documentazione allegata alla registrazione nella banca dati dei dispositivi medici istituita presso il Ministero della Salute, lo stesso Ministero assunse delle iniziative nei confronti delle società U-Earth Biotech Ltd. e Pure Air Zone Italy, vietando la commercializzazione dei modelli “Model 2”, “Model 2.1” di U-Mask e disponendone il ritiro dal mercato, in considerazione dei potenziali rischi per la salute umana.

Nel febbraio 2021, anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) avviò un procedimento istruttorio nei confronti delle predette società (ne parlai nella newsletter di marzo 2021), procedimento che si è concluso nell’ottobre scorso. Il procedimento ha riguardato, in particolare, l’attività di promozione e vendita delle versioni “Model 2”, “Model 2.1” e “Model 2.2”, consistenti nella pubblicazione di inserzioni connotate da claim che ne equiparavano l’efficacia protettiva nei confronti del contagio da Covid19 a quella dei dispositivi di protezione individuale di classe FFP3, mediante un confronto esplicito e/o vantando una capacità filtrante di oltre il 99% verso l’interno, esaltando l’elevata e prolungata durata del filtro, pari ad almeno 200 ore, nonché attraverso il riferimento ad un’approvazione da parte del Ministero della Salute e dell’Istituto Superiore di sanità. Era stato assicurato – per esempio – che “U-Mask aiuta a prevenire il contagio del virus e batteri (…) è un dispositivo medico CE registrato dal Ministero della Salute italiano che contiene uno scudo bioattivo riutilizzabile, dove tutto ciò che viene a contatto con il biostrato interno si auto-igienizza e non prolifera”. Inoltre, al fine di esaltare le proprietà e la qualità del prodotto, i consumatori venivano messi in guardia circa i potenziali rischi della protezione offerta da altre mascherine e venivano descritte in chiave comparativa anche le certificazioni vantate da “U-Mask Model 2”. Dalla documentazione ispettiva, è emerso altresì che gli addetti del customer care fornivano ai clienti una risposta sistematicamente positiva, o a volte quantomeno ambigua, in merito alla qualificazione di U-Mask come dispositivo di protezione individuale di classe FFP3.

Nel corso del procedimento, sono emerse anche ulteriori condotte non rispettose della disciplina del Codice del Consumo sui diritti dei consumatori nei contratti a distanza, con specifico riguardo al diritto di recesso, alla garanzia legale, al meccanismo extragiudiziale di reclamo e ricorso al foro competente.

Da parte loro, le società, nelle memorie difensive di parte hanno contestato che i messaggi utilizzati presentassero profili di ingannevolezza risultando appropriati ad un’adeguata comunicazione delle qualità della mascherina. Hanno evidenziato, in particolare, come la mascherina U-Mask, pur avendo tutte le caratteristiche delle mascherine chirurgiche ed essendo validamente registrata come dispositivo medico presenterebbe una serie di caratteristiche, debitamente certificate, che ne migliorerebbero la capacità protettiva, consentendone la qualificazione come prodotto innovativo. La difesa, però, non ha colto nel segno.

L’AGCM – tenuto anche conto del parere dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – ha ritenuto che la pratica commerciale relativa alla promozione e commercializzazione di U-Mask risulta scorretta in quanto contraria alla diligenza professionale ed idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio in relazione ai prodotti, mediante l’offerta di mascherine registrate come dispositivi medici (mascherine chirurgiche) con modalità ingannevoli e aggressive, attraverso l’impropria equiparazione a dispositivi di protezione individuale di classe FFP3 e il vanto di proprietà innovative protettive e di durata dell’efficacia preventiva non debitamente comprovate o, in ogni caso, con modalità contrarie alla normativa comunitaria applicabile ai dispositivi medici, nonché la pubblicazione solo in lingua inglese delle condizioni contrattuali di vendita.

Considerando la gravità e la durata delle violazioni che si sono perpetrate per oltre un anno, l’Autorità ha ritenuto di dover irrogare alle società in solido fra loro sanzioni pari a complessivi € 450.000.

Avv. Luciana Porcelli