La legge sul Diritto d’Autore ( L. 633/1941) individua tre categorie di fotografie ai fini della loro tutela: l’opera fotografica (art.2.7 della legge), la fotografia semplice (artt.87 e segg.) e le “fotografie di scritti, documenti, carte di affari, oggetti materiali, disegni tecnici e prodotti simili” (art.87, co.2). Quest’ultima categoria, la cui funzione è solo quella di duplicare fedelmente l’originale, non riceve alcuna tutela. L’opera fotografica gode invece di una tutela piena, e quindi sia la protezione del diritto di sfruttamento economico per la durata di 70 anni dalla morte dell’autore, sia quella del cosiddetto “diritto morale” d’autore, cioè la protezione dell’opera a tutela della personalità di chi l’ha realizzata. Fra questi due estremi si colloca la categoria delle “fotografie semplici”, per le quali la L.633/1941 prevede una tutela del diritto di sfruttamento economico limitata nel tempo (20 anni dallo scatto della fotografia), senza protezione del diritto morale (salvo il diritto ad essere riconosciuto autore ed a impedire l’altrui abusiva autoattribuzione).

Ma qual è il discrimine fra “opera fotografica” e “semplice fotografia”?

Come anche per le opere letterarie, musicali, della pittura e così via, la fotografia, per essere qualificata opera dell’ingegno, deve essere dotata di carattere creativo (artt. 1 e 2 n.7 della L.633/1941). Il “carattere creativo” altro non è che la manifestazione della personalità dell’autore, requisito che non deve essere confuso con il valore artistico, anche se alcune sentenze utilizzano “carattere creativo” e “valore artistico” come sinonimi. Il carattere creativo è solo l’impronta personale che il fotografo imprime all’immagine ottenuta con il mezzo fotografico, senza necessità che sia rinvenibile – al fine di qualificare lo scatto come opera dell’ingegno e non come semplice fotografia – un ulteriore valore artistico, parametro peraltro estremamente soggettivo, mutevole nel tempo e con il mutare della sensibilità sociale.

Il carattere creativo della fotografia, cioè l’apporto personale del fotografo, non è comunque un elemento facile da individuare, specie considerando che la fotografia si ottiene attraverso uno strumento, la fotocamera, che comunque svolge un ruolo essenziale nel risultato finale e che tutti noi, chi più chi meno, sappiamo utilizzare. La giurisprudenza tende quindi a valorizzare la prevalenza dell’apporto del fotografo sull’aspetto prettamente tecnico, che è invece frutto del mezzo impiegato. Questo apporto personale si può manifestare in elementi come l’inquadratura, la prospettiva, la cura della luce, il dosaggio dei toni e così via, che prescindono dal soggetto rappresentato e ne costituiscono una interpretazione personale, specie quando più di uno di questi elementi concorrono per dar vita al prodotto finale; ma il carattere creativo può consistere anche nella scelta e, per così dire, nella “manipolazione” del soggetto ripreso, come accade quando il fotografo è anche l’art director della scena rappresentata. In entrambi i casi il risultato, se c’è apporto creativo, dovrebbe consistere in un prodotto unico, non essendo sufficiente a rendere la fotografia opera dell’ingegno anche l’elevata professionalità del fotografo e la conseguente apprezzabilità del prodotto.

In applicazione di questi principi il Tribunale di Torino, con una sentenza ricca di richiami alla giurisprudenza in materia (sentenza n.3768 del 16 luglio 2021), ha ritenuto che non costituissero opere fotografiche, ma semplici fotografie, due immagini che ritraevano due monumenti di Torino, e cioè la fontana del “traforo del Frejus” di piazza Statuto, e la “statua della Fede” posta a fianco della scalinata della chiesa Gran Madre di Dio. Si trattava di due scatti di pregio, ma non per questo – secondo il Tribunale – sufficientemente creativi. Nel primo caso (traforo del Frejus) la fotografia riprendeva controluce il “genio alato” posto in cima alla fontana, in modo che attraverso la statua filtrasse un raggio di luce: il Tribunale ha giudicato questo effetto non originale (anche in considerazione delle molte fotografie rinvenibili sul web e che propongono lo stesso risultato di chiaro-scuro), ed ha inoltre rilevato l’assenza di ogni altra reinterpretazione personale del soggetto rappresentato. Nel caso della statua della Fede, il Tribunale ha ritenuto inflazionata la soluzione prescelta dal fotografo di riprendere la statua di spalle in modo che fosse ben visibile anche la Mole Antonelliana. Inoltre anche la presenza di un lampione acceso, da cui la fotografia traeva luce, è stata giudicata insufficiente a conferire allo scatto un’impronta originale, che secondo il Tribunale deve andare “al di là della mera riproduzione delle luci di un paesaggio serale”.

Avv. Pierluigi Cottafavi